JOE STRUMMER
21/8/1952 - 22/12/2002
"Walking it like he talked it"

IL RICORDO DI MARCO DENTI
Dal mensile Buscadero del Febbraio 2003
"Up In Heaven Not Only Here"

C’è qualcosa che ci è sfuggito nell’improvvisa scomparsa di Joe Strummer,pochi giorni prima della fine del 2002.Il laconico comunicato della famiglia e del suo entourage diceva solo che era morto tranquillamente a casa sua. Nient’altro, ma al dolore di chi è cresciuto con i Clash e aveva salutato con affetto il ritorno sulle barricate di Joe Strummer, servono altre parole per trovare una via d’uscita, un Corner Soul che sia una preghiera o soltanto il modo giusto per ricordarlo. A parte che morire, qualsiasi cosa voglia dire, non è e non sarà mai un’esperienza tranquilla, è suonata ancora più strana e forzata la precisazione sul luogo, l’assicurazione che il trapasso fosse avvenuto tra le mura domestiche.

Proprio per Joe Strummer che fin da bambino (il padre, è noto, era un diplomatico) era abituato a vivere per le vie del mondo e a sentirsi a casa, ovunque, non appena tolti gli stivali. Dai buchi fatiscenti nei sobborghi di Londra fino al cielo di New York City, Joe Strummer ha vissuto la sua personale odissea terrena da protagonista, raccogliendo di rettamente alla fonte, da Elvis, gli elementi primari per continuare l’unica, vera rivoluzione del ventesimo secolo: quella del rock’n’roll. Sì, è vero, è scritto, nel 1977 la regola era “no Elvis, Beatles or The Rolling Stones” e l’unico punto di vista era la terra bruciata, l’idea (coerente) che con tre accordi si potesse formare un gruppo e scatenare una rivolta e i Clash sono stati fondamentali per quel terremoto. Fedeli allo spirito work in progress dell’epoca, “cercavamo tutto il tempo di restare accordati” ricordava Joe Strummer nelle note di "Clash On Broadway", eppure contenevano in embrione, già nel loro primo disco (l’indimenticabile The Clash) tutte le forme di vita musicali che sarebbero clamorosamente esplose prima in London Calling e poi, ormai incontenibili, in Sandinista!. Un tratto distintivo raccolto ben presto dai critici più attenti, come Greil Marcus, che notarono come l’obiettivo dei Clash fosse “crescere non solo musicalmente ma anche politicamente, come se una cosa fossa necessaria all’altra”. Il miglior portavoce di questa linea non poteva che essere Joe Strummer, uno speaker logorroico perché aveva miti, utopie, passioni, storie, personaggi e coscienze da raccontare all’infinito.

Forse i simboli non erano sempre appropriati, ma lo scopo, le motivazioni, le spinte primordiali erano chiarissimi:”Nel bene o nel male, sentivamo di avere una missione. Per i diritti umani e contro il razzismo. Per la democrazia e la libertà, e contro il fascismo. Per il bene e contro il male”. C’è gente che in nome di queste stesse parole se ne va in giro per il mondo a far schizzare per aria la gente (in un modo o nell’altro, la differenza alla fine non si nota), I Clash, al massimo, facevano saltare i nervi di chi li seguiva essendo e suonando devastanti, “out of control”, sprezzanti, sempre fieri di arrivare da e tornare nella “Garageland”.

Finché li guidò l’istinto sembravano non temere, o non preoccuparsi del groviglio di confusione (vitale, anche) che si portavano dietro e l’ottica era, più o meno, come direbbe Lenny Kaye, “al diavolo, lo stesso rock’n’roll è pieno di contraddizioni”. Siamo tutti persi in quel grande supermercato che è diventato il mondo e i Clash di London Calling e Sandinista! l’avevano scoperto con vent’anni d’anticipo: rubando una copertina al primo disco di Elvis Presley, attraversando l’America come dei profeti che offrivano sane vibrazioni in cambio di un po’ d’attenzione, svelando un caleidoscopio di musiche dentro il motore furioso della Gibson di Mick Jones e della Telecaster incerottata di Joe Strummer, scoprendo Woody Guthrie e Bob Dylan, Bob Marley e Bo Diddley, suonando con David Johansen (“Con Joe Strummer mi sono sempre trovato a mio agio. Venivamo tutti e due dalla strada, parlavamo la stessa lingua”) e con gli Who che soltanto qualche anno prima erano stati infilati nella categoria dinosauri o, peggio ancora, fossili. Meglio così comunque: i Clash hanno sfidato anche la loro stessa coerenza e alla fine siamo qui a rimpiangere loro e non sicuramente i gruppi militanti, duri e puri, che (con tutto il rispetto possibile) continuano a suonare come se il 1977 fosse eterno.

Poi vennero le incomprensioni, le solite diatribe con i manager, l’industria, lo scontro frontale con Mick Jones e la decadenza invero poco decorosa. Non c’era nessuno al volante dei Clash dopo Combat Rock: Joe Strummer cercava di convincere a forza di proclami, il gruppo sembrava aver fatto un balzo indietro nel tempo, una tempesta di energia ormai senza idee. La fine era ormai inevitabile: l’ultimo concerto italiano dei Clash, a Milano, può funzionare benissimo da epitaffio. All’inizio dell’anno di George Orwell (era il febbraio 1984) cominciarono con "London Calling" e proseguirono con una furia inusitata, ma anche le risse sul palco e gli (scarsi) incidenti fuori sembravano ormai una parodia. Aveva ragione Greil Marcus quando scriveva che “nei loro momenti migliori, i Clash suonavano esattamente come il loro nome lasciava immaginare”. L’addio sarebbe giunto di lì a poco e la diaspora aveva il sapore del disorientamento che tutto il mondo del rock’n’roll provava in quel periodo. A Joe Strummer rimasero il vecchio amore per il cinema con le colonne sonore e il cammeo in “Ho Affittato Un Killer” di Aki Kaurismaki, un primo disco da solo, del tutto interlocutorio, poi i Pogues: percorsi un po’ sghembi per uno che aveva sempre avuto, the right profile, il profilo giusto. Sembrava dimenticato, Joe Strummer, e poi un paio d’anni fa, la sorpresa: più dei dischi aveva colpito ancora la voglia di rimettersi in gioco, gesto che è facile da dire e da scrivere, un po’ meno da mettere in pratica. Nel frattempo, dai Mano Negra ai Rancid, l’eredità dei Clash era stata saccheggiata in lungo e in largo e Joe Strummer andava fiero di aver contribuito a creare un serbatoio d’idee, molti progetti ancora in bozza, tante connessioni che poi altri avrebbero trasformato in career opportunities. Lui ci beveva sopra una tequila: non stava rincorrendo le ombre, non era un sopravvissuto. Era solo un po’ invecchiato, ma era ancora per le strade e motivi per rispettarlo ne avevamo (e ne abbiamo) all'infinito. Poi quella notizia, inaspettata, imprevista, quelle parole sibilline. Lo vogliamo ricordare con le note struggenti di “Minstrel Boy”, il tradizionale che chiudeva Global A Go-Go. Sarà stato un segno, ma, in tutti questi anni, è l’unico momento in cui se ne è rimasto zitto, ad ascoltare, affascinato come la prima volta, il mistero speciale della musica”. È quello che ci resta: la sua musica, le canzoni, i dischi, i Clash, ma lui, il rissoso irascibile caotico Joe Strummer che adesso sarà a sfondare porte e a litigare in paradiso o straight to hell, ci mancherà. Tantissimo.

Marco Denti