"Bob Marley, santo e ribelle"

Vent'anni fa moriva il rasta che con la musica aveva reso orgogliosa la sua gente. E, conquistando l'impero delle periferie, aveva portato la Giamaica in tutto il mondo.

di Alessandro Robecchi



Nel febbraio del 1964, allo scoccare dei 19 anni d'età, aveva un principesco stipendio di tre sterline la settimana, un completo di lamé senza colletto e tutti i ragazzi cantavano la sua canzone. Robert Nesta Marley poteva sedersi sulle scale della casa di Trenchtown con una certa soddisfazione. Non erano mai girati tanti soldi, in quella casa. E tutti i ragazzi cantavano Simmer Down. Sir Clemence Dodd gli aveva messo a fianco la sezione fiati del momento, gli Skatalites, che erano famosi in tutta l'isola ed erano stati persino "fuori". Mille copie della canzone si erano volatilizzate in pochi giorni. Tutta la Giamaica cantava Simmer Down, state calmi!, una storia di teste calde e tasche vuote. Si diceva che quella canzone con quelle parole incomprensibili, strascicate, pacifiche ma minacciose, preoccupasse la buona borghesia fresca d'indipendenza (ma con la Regina d'Inghilterra a capo dello Stato) all'ora del tè.
Scemenze: per Bob era solo la solita solfa di mamma Cedella: "State calmi, basta far casino!". Saltellava niente male, la canzone. Era uno ska veloce, con un delicato assolo di trombone nel mezzo e il tormentone: state calmi! Per i rude boys, le bande, i disgraziati, gli attaccabrighe di Giamaica - per tutti quelli a cui si chiedeva di "stare calmi" - era diventato un inno. Era nella loro lingua, infatti, patois giamaicano e inglese impastati da vocali aperte o chiuse a piacere - simmadaaaaw - la lingua del ghetto, non proprio l'inglese, la lingua dei sufferah, dei povericristi. Ecco che ora la mandava la radio: state calmi… Il vestito di lamé era dorato, solo per le serate.

VENT'ANNI DOPO. Mentre si festeggia si celebra il ventennale della morte di Bob Marley - simbolo nazionale e identità collettiva indiscussa - l'uomo più famoso e detestato di Giamaica è un certo Ainsworth Gidden. Una notte del luglio scorso, rastrellò una cinquantina di barboni, senza fissa dimora, piccoli spacciatori d'erba, nullafacenti e rude boys, li caricò su un paio di camion, li bastonò ben benino e li abbandonò a cinquanta miglia da Montego Bay, fuori dalle palle. Per la precisione fuori dalla "porta buona" della Giamaica, quella dove un milione di turisti atterrano ogni anno per fumare erba e a bere rum, it's a paradise, man! Ora Gidden fa i nomi: il sovrintendente sapeva, questo o quel riccone del posto erano d'accordo. Tutti leggono il Gleaner per sapere chi è stato, questa volta, a calpestare i sufferah.

POVERA GENTE. Mai come nel caso della Giamaica le statistiche mentono: gli oltre 1.400 dollari di reddito pro capite sono una media beffarda in un posto dove la ricchezza è cosa di pochissimi, il ceto medio è minoranza e tutti gli altri sono poveri. Amnesty International ha qualcosa da ridire sulla polizia e sui suoi metodi, la pena di morte (impiccagione) non è applicata da anni, ma i condannati vivono praticamente sotto tortura. Tristi tropici, insomma, dove non è cambiato molto dai tempi in cui Bob Marley cantava Simmer Down con un vestito di lamé e faceva le serate spostandosi in camion insieme ai suoi Wailers. A proposito di questo "state calmi", che vale oggi come allora, le cronache riportano dell'ennesimo appello dell'onorevole primo ministro Percival Patterson: "Chiedo a tutti i benpensanti, a tutte le organizzazioni, a tutti i gruppi, a tutti i settori della società di aiutarci a bandire il crimine e tutti gli altri tipi di indisciplina e irregolarità, a isolare i delinquenti e ricostruire la nostra società in modo che la legge e l'ordine prevalgano…". Simmer Down…

DAL CARIBE ALL'AFRICA. Che i sufferah siano ancora sufferah e i rude boys ancora rude boys, e dunque che non sia cambiato quasi niente in Giamaica in quasi cinquant'anni non spiega granché. Turisti bianchi, banane, bauxite, zucchero e caffè, nient'altro per vivere. Marley, la star planetaria, l'unica che è arrivata a illuminare persino l'Africa, è entrato così nell'immaginario giamaicano come un padre della patria. Per un Paese del Caribe avere un'identità nazionale che non risalga ai tempi delle cannonate dei pirati è una sciccheria rara. A Cuba l'ha data Fidel. Alla Giamaica un musicista nero, di religione rasta. Nei piccoli altarini, nelle pitture mistiche, nelle insegne dei negozi, nelle rivendite di magliette per turisti, nelle botteghe dove si fanno treccine e massaggi, la faccia di Bob compare sempre. In forma di santino, accostata alle immagini del Negus Neghesti Ras Tafari Heilé Selassié, ai colori rasta, accanto ai leoni, a sagome dell'Africa stilizzate come pitture rupestri. Elencando a ruota libera si sta parlando di un idolo, di un'icona, di "uno che ce l'ha fatta", di un capo ribelle, di un predicatore mistico, di uno che si faceva rispettare, di un grande musicista e persino di un nume tutelare e di una figura politica piena di carisma. L'uomo che convinse la sua gente a smettere di spararsi addosso, che liberò l'Africa dal colonialismo e che portò la Giamaica in tutto il mondo. Ce n'è abbastanza per farne un eroe nazionale. Ma il mondo? Come andò con il resto del mondo?

L'ADESIVO. Per qualsiasi uomo adulto occidentale di oggi, o almeno per molti, Bob Marley è un adesivo sul cofano della Diane, qualcosa che sembra un ricordo dei vecchi tempi, quando anche Clinton si faceva le canne, e chi non l'ha fatto? Ribellismi perduti e odore di ganja. Certo anche questo è Marley. L'Europa scoprì e consumò questa medicina, questo massaggio musicale, prima dell'America, se ne inebriò, se ne lasciò dondolare. Erano, si pensava e si credeva, buone canzoni d'amore e ribellione, che però non si capivano appieno: non si era negri, dopotutto. Si finiva per collegarle a belle spiagge, mari azzurri, a posti da cartolina scambiati per paradisi. Chi capì bene, e al volo, fu il proletariato inglese. Poveri, punk, emarginati, gente che dai ghetti del nord sapeva spremere senso dalla lingua dei ghetti del sud. I Clash, suprema banda politica, mise molto Marley nella sua musica. E la miscela risultò esplosiva: stava succedendo qualcosa. Dopo la rivolta nera di Notting Hill, Strummer cantava "voglio una rivolta bianca" e metteva tra le sue chitarre un po' di quel tocco in levare che ha fatto spumeggiare il reggae ovunque. Anche nell'impero delle periferie (e dopo, in quello della Thatcher), i sufferah non mancavano.

A BABYLON. Santo, ribelle predicatore. Come gli venne in mente di stabilire il quartier generale della Tuff Gong in Hope Road, una via residenziale della Kingston-bene, di preciso non si sa. La casa era di Blackwell, il suo pigmalione "occidentale", ma la tribù di Marley ne prese possesso pieno, con i vicini, tra cui il primo ministro, inorriditi. Musica, partite a pallone, ragazze, droga, scazzottate. Il teppista, il rude boy, era salito ai quartieri alti. Ascoltava come un patriarca le rogne di tutti, distribuiva dollari, suonava e giocava a pallone. Aveva appena trent'anni. Ogni tanto andava a far visita agli amici dj della Jamaican Broadcasting Corporation. Portava i nuovi singoli, quelli che poi avrebbero sbancato nelle classifiche di Billboard. Quando i dj programmarono la versione di I shot the sheriff cantata da Clapton si presentò minaccioso con una mazza da baseball e qualche amico fidato del ghetto. Va bene star mondiale, ma la Giamaica è la Giamaica, baby. Pura Babylon, non si va per il sottile.

QUALCHE FUMATA. In ogni caso è appurato: un giovane occidentale, uno che calza scarpe da tennis che manterrebbero una famiglia giamaicana per un paio di mesi non ne sa molto, di misticismo. Gli resta appena il fumo della marijuana, che Marley, peraltro pubblicizzò sempre e ovunque. Meglio di niente, direte. Ma nel vero misticismo di Marley, nella sua fede rasta, nel suo straordinario messaggio di pace, non è facile entrare. Intorcinato tra leggende africane, predicatori come Marcus Garvey che promettevano il ritorno in Africa, la guida morale di Heilé Selassié, dio in terra, e poi altre credenze e superstizioni e fedi sincere, il credo, il senso di Marley non può che sfuggire, da qui. E si intuisce, immenso, nella pienezza della sua musica, quella sì densa di sensi e messaggi, di preghiere laiche, nenie religiose e good vibrations modellate sulla stessa indolenza che gli dei hanno ai tropici. Ipnosi.

PROFETA NERO. Per l'Africa fu un'altra cosa. Lì Marley era un profeta africano, un combattente della libertà. Sulle colline dell'ex Rhodesia erano le radio clandestine dell'African National Congress, del Fronte di Liberazione, a mandare le canzoni di Marley. Africa Unite e Zimbabwe, roba così, che saltellava reggae, e diceva cose come l'Africa agli Africani! Ogni uomo dev'essere padrone del proprio destino! Fischiavano le pallottole. Fischiarono i lacrimogeni a Salisbury, al Rufaru Stadium, il 17 aprile del 1980. Lì si proclamava l'indipendenza dello Zimbabwe, si cancellava la vergogna rhodesiana, e allo stadio arrivarono in milioni, a cantare e a spingere e a festeggiare, e a essere dispersi e a tornare alla carica ancora. Africa Unite, cantavano e inneggiavano al Messia della Musica. Le ultime guerre anticoloniali, quel flebile passaggio che portò dall'imperialismo alla globalizzazione, tempi di illusioni feroci e di marxismi neri, portarono impresse le note di quel Marley, l'ultimo Marley, il combattente, il leader, il leone di Zion che sconfigge Babylon a chitarrate sulla capoccia.

COLPA DEL CALCIO. Si era ammalato di cancro nel modo più cretino del mondo. Un incidente a un dito del piede durante una partita a pallone. Non aveva voluto curarsi subito, né dopo, quando si era ancora in tempo, perché "un rasta non permette che il suo corpo sia tagliato a pezzetti". Il cancro marciò, camminò, fece strada. Arrivò ai polmoni, al cervello. Al Rufaru Stadium, mentre con la sua chitarra officiava il rito di un'altra indipendenza africana, sapeva di non avere più tempo. Ma quelle cose rivoluzionarie, quegli inni alla libertà li avrebbe voluti cantare anche a casa, tornare in Giamaica con un sogno per le imminenti elezioni: un governo nero (qualcuno sostiene anche marxista) per sollevarsi da Babylon, un governo per i sufferah.
Non fece in tempo. Suonò a Milano, allo stadio di San Siro, che dondolò nel fumo azzurro per ore, e - dopo - per giorni. Suonò ancora in America. Suonò l'ultimo concerto a Pittsburgh che quasi non si reggeva in piedi. Cantò Redempion Song da solo, al buio, in un angolo del palco, e tutti piansero. Morì al Cedars of Lebanon Hospital di Miami l'11 maggio del 1981, all'età di 36 anni. Il 20 maggio fu esposto alla National Arena di Kingston e tutta la Giamaica gli passò davanti. Il primo ministro lesse un'orazione funebre in Parlamento, gli conferì la Croce al Merito che ne faceva non più un cantante morto, ma il cadavere vestito in jeans dell'Honorable Sir Robert Nesta Marley. Lo seppellirono - dopo un corteo di ottanta chilometri dove ondeggiavano immagini sacre del Negus e del leone di Zion - accanto alla sua casa di Nine Miles, nella contea di St.Ann, in campagna. Se ci vai ora, rude boys marchiati nike e ray-ban ti vendono canne di dimensioni mostruose e ammiccano: "Bob Marley size, man!". Ti vendono magliette, si offrono come guida, chiedono se vuoi bere, o scopare e se gli dai qualche dollaro. I sufferah con le loro lacrime e i rude boys con i loro traffici si prendono le briciole di "quel che ci ha lasciato Bob": la solita Babylon e qualche canzone che parla della speranza di uscirne. Amen.