"AFRICA UNITE "
Marley, le promesse e i vip


Di Bunna (Africa Unite)
Articolo tratto dal Manifesto


Dalla prima volta che mi è capitato di sentire un pezzo di Marley, ne sono rimasto affascinato. La sua carica, il suo messaggio, il suo carisma e la sua musica, hanno segnato la mia vita. Lui è stata la scintilla che ci ha fatto cominciare a suonare, lui, grazie alle sue canzoni, mi ha fatto capire che la musica può essere un valido strumento per unire e divertire ma nello stesso tempo far pensare. Queste sono state le cose che mi hanno fatto avvicinare al reggae, queste le motivazioni che ci hanno ispirato quando, nell'ormai lontano 1981, abbiamo deciso di fondare gli Africa Unite. Ho appreso dei festeggiamenti in onore dei sessant'anni di Marley da un promoter italiano che, un paio di mesi fa, mi ha chiamato dicendomi che era stato fatto il nostro nome per rappresentare il reggae italiano, nel concerto a Meskal Square. La cosa ci ha subito entusiasmato. Ma, purtroppo, col passare dei giorni, la nostra partecipazione sembrava diventare sempre più difficile. Ignoro le dinamiche organizzative che hanno portato alla nostra esclusione e alla scelta di Carmen Consoli quale unica rappresentante della musica italiana ma, al di là di tutto, l'essere presente - anche solo come spettatore - mi allettava molto. Era un'ottima occasione per vedere quella terra da sempre descritta da Marley, e da tutta la filosofia rasta, il posto dove gli africani sparsi per il mondo sarebbero dovuti, un giorno, ritornare.

Non sono state certo le motivazioni mistico-religiose che mi hanno convinto a partire, la filosofia rasta è una cosa che non mi ha mai interessato. Abbiamo sempre pensato che per noi sarebbe stato impossibile capire le motivazioni che hanno spinto i Rastafarians giamaicani a individuare in un imperatore come Haile Selassie - un dittatore a volte sanguinario - una figura «divina» da venerare. La cosa che mi interessava di più era vedere l'Africa, capire che concezione avessero gli etiopi del reggae, dei rasta, di Marley.

Decido di partire.

Arrivo ad Addis alle 11 di sera del 4 febbraio: due giorni prima del concerto di commemorazione. Lungo la strada dall'aeroporto fino a casa di Stefano (l'amico che mi ospita), noto i manifesti che pubblicizzano l'evento. La faccia di Bob, contornata dai colori giallo, rosso e verde della bandiera etiope, è a ogni angolo. Si respira un'aria di attesa.

Il mattino dopo, per strada, i bambini mi circondano chiedendomi dei soldi, cercano di vendermi cose come fotocopie con la faccia di Marley, braccialetti, gomme da masticare. Resto sconvolto dalla quantità di mendicanti che affollano la città, ma Stefano mi racconta che non è sempre così. Molti sono arrivati da fuori Addis, in concomitanza dell'arrivo dei turisti per il concerto.

Strade trafficate che dividono case di lamiera da alberghi da sogno, bambini che masticano qat, ragazze bellissime, poliziotti. Ma chiunque tu incontri, nonostante tutto, ti sorride con una dignità disarmante. Questa è l'Etiopia.

Arriviamo a Meskel Square, il giorno del concerto. Resto un po' deluso, vedendo che file di transenne tengono il pubblico a circa trenta metri dal palco, la zona più vicina è invece riservata a «persone importanti», che hanno sborsato 100 $ per il Vip Pass.

Nonostante il reggae di Marley abbia sempre inneggiato all'uguaglianza, c'è discriminazione e chi paga vede il concerto. I soldi raccolti serviranno a sovvenzionare progetti in Etiopia e per le vittime somale dello tsunami, dice la voce della Marley Foundation. La mia speranza è che sia veramente così, ma non riesco a tenere lontano lo scetticismo.

Tornando al concerto, la gente partecipa, si diverte. Gli artisti si susseguono sul palco in un crescendo calcolato che culmina con la performance della famiglia. Rita Ziggy e gli altri figli riconosciuti cantano le canzoni del «maestro» in modo preciso, tecnicamente identico, senza però riuscire ad esprimere quel carisma che solo Bob aveva. Finito il concerto la gente torna a casa, felice. Oggi è stato un giorno di festa, un giorno dove, chi lo aveva ha messo il vestito buono; un giorno per incontrarsi, per ricordare un uomo che non è morto e mai potrà morire. Peace!