LONDON CALLING 25th

Il "Completo Controllo" prima di una serie di passaggi cruciali che porteranno al capolavoro. Un lungo articolo scritto da Mauro Zaccuri per il mensile rock "Jam" (numero di ottobre 2004) per il 25th di "London Calling"


Complete Control , la scommessa vincente dei Clash

Controllo della musica, controllo dei contenuti, del management, dell’entourage, del budget a disposizione per realizzare il proprio sound. Furono questi gli elementi che resero possibile la realizzazione di un capolavoro come “London Calling”, i cui 25 anni sono celebrati con la sua ripubblicazione in una nuova confezione deluxe composta da 2 cd ed 1 dvd. Periodo di grande coesione fra i componenti del gruppo e di brillante vena artistica, i dodici mesi che andarono dalla fine del ’78 alla fine del ’79 furono determinanti per l’affermazione dei Clash come gruppo di caratura mondiale, fino a farli diventare, all’apice del successo, la miglior rock’n’roll band sulla faccia del pianeta.


Ma le cose sarebbero potute andare diversamente, molto diversamente, se il coraggio e la determinazione dei quattro rockers londinesi (Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon, Topper Headon) non avessero fatto premio. Il 1978 fu infatti segnato dal declino del primo punk inglese e della spinta “rivoluzionaria” e libertaria che lo aveva contraddistinto. I Sex Pistols avevano abdicato dopo il disastroso tour americano, conclusosi al Winterland Ballroom di San Francisco il 14 gennaio del ’78, Sid Vicious se la passava malissimo, Johnny Rotten aveva formato una nuova band, i Public Image Limited, i Damned vivevano un travaglio interno al gruppo dopo il contraddittorio “Music For Pleasure”. Dal loro punto di osservazione i Clash avevano già preso le distanze dal punk rock, o meglio da quello che il punk stava diventando, cioè una caricatura di se stesso.

Già nel marzo del ’78 Joe Strummer dichiarò al Melody Maker : “Quando il punk arrivò e diede un calcio a tutte quelle ottuse, noiose, inanimate rock band, noi abbiamo avuto la prima dose di realismo. Ma dall’essere la cosa più potente nel mondo, il punk è diventato la cosa più noiosa, come se ognuno si fosse asservito per seguire quel modello”. Frasi di questo tipo, scandite dal leader della band che rappresentava “l’anima politica del punk rock”, erano emblematiche per intuire che la svolta era nell’aria, anche se non fu per nulla facile provare a convincere i punk più ortodossi della bontà di questa scelta. Ma i Clash non sopportavano di essere etichettati, non sopportavano di vedere soffocate le loro ambizioni artistiche, non sopportavano di essere rinchiusi come buoi nel recinto dell’industria discografica per poi venire macellati. Come ha dichiarato ad Uncut la fotografa Pennie Smith, “on the road” insieme a loro nel secondo, decisivo, tour americano : “Erano rivoluzionari nelle loro teste. Volevano essere in una band e lo volevano fare a modo loro”. La strada del cambiamento stava per essere percorsa con decisione, mentre intorno a loro cominciavano a montare le polemiche, con la stampa a porre dubbi sulla credibilità della band, a domandare dove fossero finiti gli ideali del ’76, a chiedere conto del rapporto con la casa discografica CBS. Nel marzo del ’78, quando Joe Strummer era uscito dall’ospedale per un’epatite contratta, diversi pezzi che saranno l’ossatura del loro secondo album erano già pronti, tipo “Tommy Gun”, “Safe European Home”, “Last Gang in Town”. Le prove nella sala in Camden Town avevano dato i loro frutti. “Quella di percorrere la strada più difficile divenne una questione essenziale. Sapevamo che avremmo potuto usare la stessa formula e vivere felici. Ma i Clash non furono mai così. Volevamo sempre spingerci avanti e fare cose interessanti” (Paul Simonon, Mojo).


Due passaggi contribuirono senza dubbio ad alimentare la convinzione della band di poter raggiungere, attraverso la propria musica ed il proprio autonomo approccio politico, una maggiore audience: la partecipazione al concerto antirazzista organizzato dall’Anti Nazi League in Victoria Park alla fine di aprile (che non ottenne la completa approvazione del manager Bernie Rhodes), ed i contatti avviati nello stesso periodo con i registi Dave Mingay e Jack Hazan per la realizzazione del film “Rude Boy”, spaccato dell’Inghilterra di quel periodo divisa dalle tensioni razziali, nel quale i Clash e la loro musica emergevano come protagonisti. Nel giugno del ’78 pubblicarono lo splendido singolo “White Man in Hammersmith Palais”, in assoluto uno dei migliori brani dell’intera loro produzione. Si stava invece deteriorando progressivamente il rapporto con Bernie Rhodes, il manager che aveva avuto un ruolo di primissimo piano, in particolare dal punto di vista culturale e politico, nella conduzione della band nei primi due anni, come ebbe onestamente a dichiarare Joe Strummer : “Bernie aveva in testa l’idea dei Clash ed i Clash non sarebbero mai esistiti senza Bernie Rhodes”. A cominciare dalla metà del ’78 Rhodes non sembrava apprezzare più il songwriting e le scelte della band, era impegnato a seguire nuovi gruppi come i Subway Sect o i Black Arabs, ed avrebbe voluto portare all’interno dei Clash l’ex Pistols Steve Jones (suonò qualche scorcio di concerto con i Clash come quinto elemento), sembra al posto di Mick Jones.

La risposta della band fu alla fine il licenziamento del manager che portò a code polemiche piuttosto velenose. Era l’ottobre 1978, giusto un mese prima dell’uscita di “Give’Em Enough Rope”, il secondo album registrato fra i Basing Street Studios di Londra e l’Automatt di San Francisco. Rotto lo storico sodalizio, i Clash si ritrovarono in poco tempo, e nonostante la loro ascesa fosse sotto gli occhi di tutti, chiusi in un angolo, senza manager, senza un luogo in cui provare, ed alle prese con i soliti, cronici problemi finanziari. “Eravamo davvero in cattive acque. Allora mostrammo a tutti ciò che eravamo capaci di fare.” (Joe Strummer, dal Dvd “The Last Testament”).
Si diceva di “Give Em’ Enough Rope”. Un album dalle “chitarre forti”, figlio di un periodo di transizione e prodotto, fra critiche, incomprensioni e malumori, dall’americano Sandy Pearlman, ex critico musicale da tutti ricordato per la produzione dei newyorkesi Blue Oyster Cult, metallari amanti del gotico, ma che aveva lavorato anche con i Dictators, protagonisti del primo punk rock made in NYC. Nonostante il suo essere “disco-ponte” verso la definitiva apertura al rock’n’roll, “Give ‘Em” raccolse grandi critiche negli States (entusiastiche quelle di Greil Marcus e Lester Bangs), rispetto la complessiva diffidenza ottenuta in patria. Difficile in effetti poter resistere a veri anthem quali i già citati “Tommy Gun”, “Safe European Home”, “English Civil War”, ed alla classica, memorabile rock song “Stay Free”.

Il dopo Rhodes vide i Clash reagire immediatamente e ricompattarsi come non mai. La band si muoveva ora come se si fosse liberata di una presenza troppo ingombrante e soffocante, ed all’interno del gruppo si respirava un’aria di indipendenza e di libertà. Il ruolo di manager venne affidato a Caroline Coon (già giornalista del Melody Maker), la quale attraverso le sue conoscenze negli States, condusse i Clash in America per un primo, anche se rapido tour. La Coon riuscì a vincere le resistenze della Cbs, ma non al punto di farsi finanziare interamente la tournee, a parte una modesta somma stanziata per un po’ di promozione. In ogni caso l’apertura al mercato americano, che come detto aveva già accolto molto bene “Give ‘Em Enough Rope”, si rivelò decisiva per il futuro successo dei Clash e probabilmente per la loro stessa esistenza. Il Pearl Harbour Tour debuttò al Commodore Ballroom di Vancouver (Canada) il 30 gennaio ’79 e si chiuse, dopo nove concerti fra San Francisco e New York, il 20 febbraio, ancora in Canada al The Rex Danforth Theatre di Toronto.

I Clash chiamarono Bo Diddley ad aprire i loro concerti, e la scelta del musicista di colore, soprannominato “The Originator” a causa della sua influenza su molti musicisti di rock’n’roll e rythm and blues, non era casuale. Attraverso la presenza on stage di Bo Diddley la band si avvicinava volutamente alle radici del r’n’r e della musica popolare americana, portandola nel cuore dei giovani “yankees” che cominciavano a seguirli. Non c’era poi molto da sorprendersi, se si considerano le influenze e le preferenze musicali di Strummer e Jones. “Volevamo vedere l’America”, dichiarò successivamente Jones, e lo fecero a loro modo, mantenendo la loro attitudine punk, e sottolineando con orgoglio il loro essere band proveniente dalla working class inglese. Aprivano sfacciatamente i loro infuocati concerti con “I’m so bored of the Usa” (“volevamo testare il loro sense of humour” disse ironicamente Joe Strummer) e li chiudevano con l’urlo ribelle di “White Riot”. Furono loro stessi e riuscirono ad affascinare il pubblico americano, il successo completo era solo rimandato di qualche mese.

Down by the River, Vanilla Studios & Vanilla Tapes
Rientrati a Londra la priorità principale rimaneva la ricerca di una sala in cui provare, dopo il forzato abbandono della storica Rehearsal Rehearsal in Camden Town, regno incontrastato di Bernie Rhodes. Il compito venne affidato ai roadies Johnny Green e The Baker che cominciarono a lavorarci sopra sondando varie possibilità. Come indicato nel bel libro di Johnny Green “A Riot Of Our Own”, all’inizio ci furono vari contatti con i Nomis Studios, con i locali degli Who a Shepperton, venne fatto un pensierino anche alla sala prove usata in passato dai Sex Pistols, in Denmark Street. Ma per vari motivi che riguardavano aspetti finanziari, di distanza e di scarso appeal, non se ne fece nulla. Alla fine venne scovato un posto chiamato Vanilla Studios, in Causton Street nel quartiere di Pimlico e vicino al Vauxhall Bridge, uno dei ponti londinesi sul Tamigi. “I Vanilla erano sul retro di un garage, così se qualcuno si recava sul posto non poteva immaginare che lì ci potesse essere una sala prove, perché tutto appariva come un garage vecchio stile” (Mick Jones, ad Uncut). Una lunga,spoglia, stanza rettangolare di color crema, questi erano i Vanilla. Ma diventarono un posto perfetto per i Clash di quel periodo, una band coesa con obbiettivi ormai chiari e comuni. Isolati dai curiosi, dagli altri musicisti e dalla stampa (il numero telefonico del Vanilla non venne concesso a nessuno), concentrati sulle loro idee e sulla loro musica che attendeva solo di essere “messa in circolo”. Così i Clash vissero quei mesi. “Ci piaceva questo posto perché era in mezzo al niente, non c’era nessuno. Eravamo noi, Johnny ed il Baker. Questa era la squadra.” (Paul Simonon)


Dopo aver ricevuto l’ok (e l’assegno) da parte della Cbs, la band trasferì la strumentazione nel nuovo locale e si mise subito a provare i nuovi pezzi con costanza e determinazione. A cominciare dall’aprile del ’79 i Clash si ritrovavano quotidianamente ai Vanilla, alternando le prove a furibonde partite di pallone in cui spiccavano, per doti tecniche e di velocità, Mick Jones e Topper Headon. L’atmosfera era rilassata (avrà avuto la sua influenza il buon consumo di cannabis ?) e contemporaneamente di grande fermento creativo. Una delle poche persone che godettero di una certa disponibilità di accesso ai Vanilla, era Kosmo Vynil, amico di Mick Jones e collaboratore dell’etichetta discografica Stiff Records. Gradualmente Kosmo diventerà il P.R. dei Clash, o meglio il loro “consigliere”, come lui stesso amava definirsi.

Le trame delle nuove canzoni partivano spesso dalle intuizioni melodiche di Jones (il vero “architetto” del suono Clash) alle quali Headon forniva la ritmica utilizzando stili diversi, riuscendo ad esprimere il suo grande talento. Fu proprio la poliedricità del drummer a spingere i Clash ad esplorare svariati generi e ad elaborare sonorità inimmaginabili sino a qualche mese prima. Paul Simonon aggiungeva il basso (in modo più disinvolto e convinto rispetto al lavoro fatto con il produttore Sandy Pearlman in “Give ‘Em Enough Rope”) e Joe Strummer, sdraiato per terra, scriveva testi che sarebbero passati alla storia, ancora politici e dalla scrittura sempre più personale, elevandolo in qualche caso al livello di Garcia Lorca, come qualcuno scrisse riguardo “Spanish Bombs”. Il sound fluiva in modo naturale ed abbracciava adesso anche il R&B, il r’n’r, il jazz, il soul unendosi a generi già utilizzati come il reggae e lo ska. Ma la cosa più interessante fu la capacità di riportare tutti questi generi all’interno della personalità della band, affinché non fossero slegati l’un con l’altro, ma facenti parti di un processo organico ed unitario dalla personalità spiccata ed unica. In sostanza i Clash stavano inventando un “nuovo sound” utilizzando la musica delle radici attraverso la loro mai abbandonata “punk attitude”.


Joe Strummer e compagnia mollarono il punk come genere musicale e come cliché, ma ne conservarono lo spirito e quel profumo di libertà che aveva coinvolto molti giovani inglesi a partire dalla metà degli anni ’70. Sul tema Paul Simonon ebbe modo di affermare : “Il punk era per il cambiamento e la sua regola numero uno era : non ci sono regole!”. Concetto applicato nella pratica come si potrà notare. Il valore dei nuovi pezzi era chiaro a tutti, quindi la band decise di cominciare a registrarli utilizzando un Teac a 4 piste noleggiato dal tecnico del suono degli Who. Il materiale prodotto era parecchio e le registrazioni effettuate comprendevano fra gli altri brani come “Rudie Can’t Fail”, “Hateful”, “Death Or Glory”, “Lost in the Supermarket”, “Brand New Cadillac”, “London Calling”, tutti già abbastanza definiti. Vennero registrate diverse cassette delle sessioni di prova che Mick Jones era solito portarsi via per valutarle con maggiore calma. Simonon ad Uncut : “Presumo che fosse l’inizio della nostra apertura come musicisti e come metodo di lavoro collettivo, perché ognuno aveva la propria idea, come succede in ogni gruppo, e le cose andavano per un verso in una direzione, ed in un'altra direzione nel lavoro d’insieme. Avendo la disponibilità delle registrazioni, potevi portarle via ed ascoltarle fuori dal contesto della sala prove ponderando meglio quale fosse la direzione che stavano prendendo, tornando in sala con nuovi aggiustamenti o miglioramenti”.

Dopo i primi ascolti nel gruppo si rafforzò la convinzione di far uscire un nuovo disco, così alcune di queste cassette vennero affidate a Johnny Green affinché le portasse, insieme ad un registratore nuovo di pacca, all’ascolto di Guy Stevens, la persona designata alla produzione di quello che sarà “London Calling”. Cosa avesse ingerito quel giorno il buon Green ancora non è chiaro, ma in ogni caso doveva essere qualcosa di piuttosto forte, al punto che le cassette ed il registratore rimasero sulla metropolitana ed il road manager, svegliatosi di soprassalto dall’oblio alcolico, scese tranquillamente dal treno con buona pace di Stevens e dei Clash. Dopo un affannoso ed infruttuoso tentativo di recupero, raccontò una storiella alla band circa una rapina di cui sarebbe stato vittima, ma dopo qualche anno la verità venne a galla. Le altre registrazioni preservate, presenti nel bonus cd dell’edizione speciale del 25th di London Calling, sono denominate “Vanilla Tapes” e pare siano il frutto di un recente “ritrovamento” durante un trasloco di Mick Jones. Resta da scoprire che fine abbiamo fatto le cassette perse da Johnny Green. Una eventualità è quella che qualcuno le abbia trovate, le abbia portate nel proprio appartamento, si sia messo ad ascoltarle, non le abbia gradite ed infine le abbia gettate nella spazzatura. Beh, quel qualcuno sappia che ha distrutto una delle registrazioni storiche del rock’n’roll. E si penta.


I “Vanilla Tapes” sono un documento interessante, che si ascolta volentieri nonostante la qualità del suono non sia ovviamente delle migliori. Si tratta essenzialmente dei demo di “London Calling”, con alcune registrazioni già molto vicine alle versioni definitive, come ha avuto modo di confermare anche Mick Jones : “I pezzi erano già li, erano praticamente arrangiati”. Si alternano versioni strumentali come nel caso di “Hateful”, “Paul’s Tune” (è “Guns Of Brixton” ovviamente, in versione più lenta, da perfezionare), “The Police Walked in 4 jazz” (Jimmy Jazz in chiave un po’ più acustica), “Working And Waiting” (è Clampdown, già potente, con le chitarre in evidenza), “Up-Toon” (è “The Right Profile”), “Revolution Rock” (in cui esce tutto il grande lavoro alla batteria di Topper Headon) a quelle complete di cantato, tipo “Rudie Can’t Fail” (con le voci un po’ diverse, sottotono), “I’m Not Down”, “Koka, Kola,Advertising & Cocaine” ( è “Koka Kola” ancora abbozzata), “Lost In The Supermarket”, “London Calling” (più lenta, con cantato e testo diverso, ma già fedele nella struttura alla versione definitiva) ed una gran bella esecuzione di “Remote Control”, il secondo singolo dei Clash, pubblicato nel maggio ’77 dalla Cbs senza il consenso della band. Le curiosità maggiori riguardavano ovviamente i brani inediti e qui dobbiamo dire che non si trovano cose esaltanti, come d’altra parte era facile prevedere. Ciò non toglie che “Hearth & Mind” sia un bel pezzo dall’impatto in stile Clash ’78 (ed in effetti richiama nelle sonorità “The Prisoners”), come buono è “Where You Gonna Go (Soweto)” costruito su base reggae con Strummer alla voce. “Lonesome Me” è una ballata country (!!) piuttosto tradizionale cantata da Mick Jones, mentre “Walking The Slidewalk” è un blues rock strumentale senza grandi pretese. La sorpresa positiva è rappresentata dalla cover del brano di Bob Dylan “The Man In Me” (tratto dall’album “New Morning” del 1970) cantata da Strummer e rivisitata, pur mantenendo le linee melodiche dell’originale, con convinzione dai Clash in chiave reggae.

Midnight To Stevens, esperienza unica ai Wessex Studios
I Clash volevano far uscire il nuovo disco, magari utilizzando proprio le registrazioni ai Vanilla, ed approfittando dei bassi costi di registrazione sostenuti, frutto di una precisa politica della band. La CBS invece frenava, non era sua intenzione immettere sul mercato un altro prodotto dei Clash, visto che in maggio era uscito l’Ep “The Cost Of Living” (comprendente “I Fought The Law)” e da lì a qualche mese (luglio ’79) sarebbe uscita la versione americana di “The Clash”, il loro primo album datato aprile ‘77, che comprendeva in questo caso anche “I Fought The Law”, “White Man in Hammersmith Palais”, “Clash City Rockers”, “Complete Control”.


Ci voleva quindi un accelerazione decisiva a tutto il processo. I Clash contattarono Guy Stevens sapendo bene che tipo di produttore stavano scegliendo. Stevens era stato produttore dei Mott The Hoople, fra i gruppi favoriti da Mick Jones quando era adolescente, aveva già lavorato con i Clash nel novembre ’76 sui loro primi demo, quando sembrava che la band si dovesse accasare alla Polydor anziché alla Cbs, ed era stato il “diffusore” in UK del R&B americano, una specie di importatore appassionato della roots music d’oltreoceano. I Clash avevano il massimo rispetto di Guy Stevens, i suoi metodi anticonformisti lasciavano la piena libertà espressiva ai musicisti in studio, in una sorta di disordine organizzato, dove il produttore viveva la musica insieme alla band per tirarne fuori l’anima, a costo di scontrarsi, anche fisicamente, per raggiungere il risultato. E non importava se spaccava sedie, lottava con il tecnico del suono (il povero Bill Price), o urlava frasi sconnesse. Stevens non aveva un approccio tecnico, ma era un entusiasta, un vero appassionato del r’n’r ed amava quelle canzoni dei Clash, così tutti loro accettarono il suo modo di lavorare fino a farlo diventare un’arma vincente. Mick Jones ad Uncut : “Ho sempre amato Guy, era un incredibile catalizzatore. Eravamo in studio per registrare un pezzo e lui veniva a sussurrarti qualcosa nell’orecchio. Era solito sussurrare a Joe quando stava suonando il piano : Jerry Lee Lewis, Jerry Lee Lewis, Jerry Lee Lewis, provando a trasmettere lo spirito di Jerry Lee nella persona che stava suonando… era questo il livello su cui lavorava”. Guy Stevens era fuori dal giro da un po’ di tempo a causa dell’alcolismo, e per lui la produzione di “London Calling” era un ottima occasione per rientrare e per lavorare con maggiore continuità. Nel luglio del ’79 i Clash entrarono ai Wessex Studios , situati in una vecchia struttura ecclesiale convertita al 106 di Highbury New Park - Islington, con molti pezzi frutto del lavoro ai Vanilla. E’ il caso di ribadire che le composizioni erano in sostanza già pronte, arrangiamenti compresi.

La CBS , preso atto della situazione, diede il benestare all’uscita del disco e condivise anche la scelta di Stevens come produttore, anche se le richieste dei Clash non erano finite lì, come si vedrà. Maurice Oberstein, il boss della multinazionale, anticipò alla band di voler sentire personalmente i risultati finali di quelle registrazioni così gelosamente custodite. Non sapeva quello che lo attendeva. Ai Wessex le sessioni fluirono speditamente, insieme al gruppo ed a Stevens c’erano gli ingegneri del suono Bill Price e Jerry Green. Il vibrante approccio di Guy Stevens conferì alle registrazioni finali dei brani un ulteriore spessore emozionale, ed il tutto prese una piega segnata dal suo irrefrenabile entusiasmo. Le immagini riguardanti qualche scorcio delle sessioni ai Wessex sono contenute nel Dvd dell’edizione speciale del 25th, denominato “The Last Testament”, e comprendente anche nella prima parte una serie di interviste ai Clash (l’ambientazione pare proprio essere quella di “Westway To The World” del 1999) ed a Kosmo Vinyl sul tema “London Calling”. Nel video ai Wessex viene allo scoperto “il metodo” Stevens : gli incitamenti sul cantato di “Four Horsemen”, il vino versato sul piano mentre Strummer suonava, distruzione di suppellettili varie, salti, urla, e la continua ed ossessiva ricerca di far sciogliere la band e di farla suonare al massimo di intensità possibile. Il primo pezzo ad essere registrato fu significativamente il r’n’r di “Brand New Cadillac”, la cover del rocker Vince Taylor (“il musicista che diede inizio al r’n’r inglese”, disse a Mojo Joe Strummer nel 1980, anche se Taylor il successo lo raggiunse in Francia agli inizi degli anni ’60), e poi via via tutti gli altri, con il contributo degli Irish Horn, la sezione fiati di Graham Parker, e di Mickey Gallagher, prestato dai Blockheads di Yan Dury, alla tastiere.

Nel maggio del ’79 in Inghilterra salì al potere Margareth Thatcher, rappresentante di quella destra liberista che tagliò lo stato sociale e cominciò un programma di privatizzazioni selvagge del settore pubblico, anticipazione di una politica che portò agli storici scioperi dei minatori inglesi iniziati nel 1984. L’Inghilterra era come avvolta in un clima di depressione, tristezza e preoccupazione, ed una buona parte delle liriche di “London Calling” espressero naturalmente anche queste sensazioni proiettandole in un contesto di “pericolo globale”, di alienazione urbana, di guerra fredda senza soluzione di continuità che andava a coinvolgere il mondo intero (si pensi che l’anno successivo Ronald Reagan prese il potere negli States). Visti in questo contesto i testi dello storico vinile rappresentano un quadro efficacemente rappresentativo del quadro socio-politico di quegli anni. Il testo della title track “London Calling” venne ispirato dal disastro nucleare americano di Three Mile Island del marzo ’79, ed esprimeva tutta la preoccupazione per un pianeta governato da logiche folli destinate a cancellare il genere umano, quello di “Spanish Bombs”, attraverso i suoi riferimenti storici, rievocava i combattenti anarchici della guerra civile spagnola e si interrogava sul terrorismo moderno, “Clampdown” era l’attacco al potere repressivo, alle forme di autoritarismo fasciste e religiose, ma anche un’esortazione alla reazione : “venga l’ora del furore/la rabbia può essere forza/sai che puoi usarla?”, mentre “Koka Kola” rappresentava un atto d’accusa verso i nuovi rampanti della borsa americana, i famosi yuppies anni ’80, rappresentanti di un paranoico mondo fatto di soldi, cocaina ed egoismo.
Prima della fine di agosto il disco era praticamente completato con i suoi 18 brani. Come promesso, il boss della CBS, Oberstein, si recò in Rolls Royce ai Wessex Studios per ascoltare il prodotto. I pezzi gli piacquero, ma non manifestò le sue sensazioni nel modo plateale preteso da Guy Stevens. Il produttore si bloccò così davanti la Rolls di Oberstain gridandogli che non si sarebbe mosso di lì se non avesse dichiarato più chiaramente il suo pensiero sull’album. Alla fine un frustrato Oberstain fu costretto a dichiarare geniale il lavoro. Archiviata anche questa pratica.

Clash Calling, i quattro outlaws della Westway nel mito
Ai primi di agosto i Clash avevano suonato a Turku in Finlandia insieme a Graham Parker and The Rumors per rimpinguare le loro esauste casse, ed ora si stavano preparando per un secondo tour americano. Affidarono il mixaggio finale di “London Calling” a Bill Price con Stevens a fare da supervisore, e partirono per gli States. Il “Take The Fifth Tour” ebbe inizio l’8 settembre 1979 al Tribal Stomp Festival di Monterey, California, e terminò a Vancouver il 16 ottobre, con David Johansen, Undertones, Sam and Dave, Joe Ely a far da supporto alternativamente nelle varie date. Al loro seguito c’erano il tastierista Gallagher come quinto elemento, il disegnatore del NME Ray Lowry e la già citata e bravissima Pennie Smith, colei che scattò la fotografia entrata nella storia del r’n’r (entrambi hanno fornito disegni e foto per il bel booklet dell’edizione speciale). Nella scaletta del tour vennero compresi pezzi che saranno in “London Calling” : “Jimmy Jazz”, “Koka Kola”, “Clampdown”, la stessa title-track.


Come per il primo tour americano, negli auspici dei Clash imperava il desiderio di riportare il vero rock’n’roll nelle città del paese che l’aveva creato : “Voglio raggiungere i ragazzi americani nelle loro stanze con i loro dischi dei Kansas e dei Kiss. Penso che abbiano bisogno di una dose di noi” (Strummer , NME,1979). Fu il tour del salto di qualità, con la band in grande spolvero, convinta dei propri mezzi, che vide il pubblico americano sempre più numeroso ed entusiasta al seguito dei concerti, dimostrando grande interesse verso tutta la produzione musicale della band (compresa la cover, presentata per l’occasione, di “Armagideon Time”, un reggae di Willie Williams), ed anche verso i contenuti politici dei testi. Il successo non intaccò, e questa fu una costante dei Clash, la spiccata identità della band ed il rispetto, il modo di relazionarsi con la propria audience. Un esempio per tutti tratto dal libro “The Complete Clash” di Keith Topping : prima del concerto a Worcester del 28 settembre si registrava una forte presenza di polizia fuori dalla Clark University, il luogo dove si sarebbe tenuto il gig. Ai punk locali non veniva concesso l’accesso al concerto a causa della politica degli organizzatori che avevano destinato i biglietti ai soli studenti. Joe Strummer, informato della situazione, si oppose alla decisione preannunciando : “se loro non entrano, noi non suoniamo”. Vinse il braccio di ferro ed i punk riuscirono ad assistere allo show. Durante il gig Strummer dedicò a loro “Clash City Rockers”. Le radici erano profondissime.

Durante il concerto al Palladium di New York del 21 settembre, Pennie Smith scattò la fotografia indicata come la migliore della storia del rock. Quella sera l’amplificazione non rese giustizia al sound dei Clash, ed il pubblico si dimostrò attento ma non appassionato come d’abitudine. Paul Simonon soffrì parecchio questa situazione (“fu un momento di frustrazione”, dichiarò) e scaricò la tensione scagliando il basso sul palco, offrendo la possibilità alla Smith di catturare quel momento di rabbia.
La fotografia in bianco e nero insieme alle scritte in verde e rosa di Ray Lowry, costituirono l’asse della copertina di “London Calling”, che si rifaceva senza mezzi termini alla cover del primo album di Elvis Presley. “The Last Testament”, questo era stato il primo titolo pensato per il disco che verrà conosciuto nel mondo come “London Calling”, come ha dichiarato Kosmo Vinyl nel dvd del 25th. L’ultimo testamento del rock’n’roll, che partiva idealmente da Elvis per arrivare al basso distrutto on stage da Simonon. Un appassionato tentativo di riportare alla ribalta la natura anticonformista e ribelle di un sound per troppo tempo relegato nell’album dei ricordi. I Clash incarnavano senza dubbio quello spirito, e per questo entrarono, beati ultimi, nel mito. Rientrarono a Londra e nel novembre del ’79 e registrarono un nuovo pezzo di Mick Jones, “Train in Vain”, che venne inserito in “London Calling” dopo che la copertina del disco era già stata stampata e quindi non compare sulla title track del vinile.

C’era però un ultimo obbiettivo che doveva essere raggiunto : il formato del disco. Joe Strummer chiese alla CBS di pubblicare un album doppio al prezzo di uno singolo. La Cbs rispose picche. Iniziò così una tenace manovra di aggiramento (alla casa discografica venne proposto in una prima fase di allegare all’album un “free-single”, poi un 12 pollici che potesse contenere 8 pezzi, infine un 12 pollici di 9 pezzi) che portò finalmente all’accordo voluto da Strummer : doppio album al prezzo di uno. “Fu la nostra prima vittoria sulla CBS”, dichiarò Joe al Sounds nel 1980.
“London Calling” uscì in Inghilterra il 14 dicembre del 1979 ed entrò nella storia, non tanto per le vendite realizzate, ma perché segnò un epoca e creò un nuovo stile musicale, che partiva dalla rilettura del passato, aggiungeva il sound incrociato nei quartieri di Londra a forte presenza caraibica, e veniva suonato ed interpretato con attitudine punk. Una recensione dell’epoca sintetizza bene i termini della questione. E’ quella che venne scritta da Tom Carson per Rolling Stone, eccone uno stralcio : “Il disco si dispone attraverso tutto il passato del r’n’r e scava profondamente nella leggenda, nella storia, nella politica e nel mito per le sue immagini ed i temi trattati. Ogni cosa è stata portata dentro una singola, vasta, emozionante storia. Una storia che sembra, come ci dicono i Clash, non appartenere solo a loro ma anche a noi”.

Da questo momento in poi la creatività dei Clash non conoscerà limiti, se non quelli temporali. In fondo tutta la storia si giocò in pochi anni, sette per la precisione, volutamente senza considerare il periodo successivo alla fuoriuscita di Mick Jones. Con il successivo “Sandinista!” pubblicato nel dicembre 1980, la band raggiungerà per l’appunto il suo massimo sforzo di anarchia creativa, offrendo un triplo album tanto spregiudicato nell’affrontare generi così differenti fra loro, quanto affascinante, seminale ed ancora oggi attuale. Un disco terzomondista e guerrigliero, figlio di uno stato di grazia che sembrava inesauribile.

Un decennio dopo l’uscita di “London Calling”, un eccitato giornalista del Rolling Stone chiamò Strummer per comunicargli che lo storico doppio era stato votato quale miglior album degli anni ’80. E Strummer sarcastico : “Ah, pensavo fosse uscito nel ‘79”.
Unico, unici, irripetibili.

Mauro Zaccuri