JOE STRUMMER
21/8/1952 - 22/12/2002
"Walking it like he talked it"

IL RICORDO DI PAOLO VITES
Dal mensile Jam del Febbraio 2003
“Addio a Joe Strummer: Clash City Rocker”

"Radio Clash" non ha smesso di trasmettere con la scomparsa di Joe Strummer, lo scorso 23 dicembre. Anche se, proprio alla vigilia di una clamorosa reunion attesa per anni e che si sarebbe dovuta tenere alla Rock And Roll Hall Of Fame il prossimo marzo, non ci sarà più la possibilità di rivedere i "four horsemen" insieme su un palco. Ma la musica che ci rimane da ascoltare risuonerà a lungo, perché i Clash, nel loro momento migliore, sono stati davvero "the only band that matters", l’unica band che conta.

Strano lavoro, quello del "giornalista musicale". Lo fai non certo per la gloria (ché in Italia, se ti occupi di rock’n’roll, sei meno importante del lattaio sotto casa) o per i soldi (ché, almeno nelle riviste specializzate, ne girano pochi) ma per toglierti qualche soddisfazione, raggiungere con la mano qualche sogno. Non sto parlando dei cd "omaggio" o degli accessi gratuiti ai concerti. Sto parlando dell’unica cosa che alla fine conta, e cioè conoscere di persona gli eroi della tua giovinezza, passare con loro una mezz’oretta o poco più con la scusa dell’intervista. Ma poi c’è l’altra faccia della medaglia, e allora non vorresti aver mai fatto questo lavoro. Quando muore uno di loro, una "rock star", tutti i fan si sentono un po’ più soli, derubati di qualcosa. Se questa "rock star" l’hai anche conosciuta (e apprezzata, perché a volte gli incontri personali sono delle delusioni) può succedere che la morte di questa persona ti faccia davvero male.

Ho avuto la fortuna di intervistare Joe Strummer, conoscerlo e assolutamente apprezzarlo per quel poco che di lui ho visto di persona. E la sua musica, quando ero ragazzo, ha significato parecchio per me.

"I Clash sono stati la più grande rock band", ha detto Bono subito dopo la morte di Strummer. "Hanno scritto il libro delle regole per gli U2." Non solo per gli U2, credo. Non so se siano stati il più grande gruppo rock di sempre, ma sicuramente sono stati degni di figurare là, accanto ai Rolling Stones degli anni 60, accanto agli Who dei primi 70, assieme ai Led Zeppelin, per parlare solo dei gruppi inglesi. Non c’è modo migliore per ricordarli che quello di ascoltare il live From Here To Eternity, uscito un paio di anni fa: ecco cosa erano i Clash. O magari guardarsi per la centesima volta Rude Boys (che adesso è anche disponibile in dvd), quel travolgente e splendido film che vede proprio Joe Strummer e soci tra i protagonisti, nonché impegnati in alcune delle loro migliori live performance.

I Clash erano un concentrato di puro rock’n’roll capace di far schizzare in piedi uno stadio come nessuno, tra la fine dei 70 e i primi 80, era in grado di fare. Magari Springsteen, ma mentre lui cantava di automobili e di ragazze, i Clash cantavano di disoccupazione, di paranoia metropolitana, razzismo, terrorismo, abuso di droga e corruzione politica. I Clash, e soprattutto Joe, cantavano di noi, della nostra vita quotidiana. Per noi che eravamo cresciuti con l’invidia nei confronti di coloro che avevano avuto la fortuna di crescere con gli Stones e con i Beatles e che non avevamo un solo eroe degno di fiducia a cui aggrapparci, alla fine dei 70, ecco che avevamo trovato qualcuno in grado di essere, per dirla alla Bob Dylan, "il fratello che non hai mai avuto".

I Clash erano appassionati e idealistici, volevano combattere la buona battaglia per i diritti di tutti. Ma erano anche inguaribilmente romantici. Ecco perché li amavamo. Non erano soltanto (e noiosamente) ideologicamente schierati. Si appiccicarono addosso l’immagine dell’outlaw, del fuorilegge del vecchio West, anzi dei gangster, non solo liricamente ma anche come look, con i borsalino in testa e il bavero della camicia sfrontatamente alzato. Forse non diventarono le superstar che avevano sognato di diventare, ma ci andarono vicini. E ridiedero al rock’n’roll passione e senso della protesta. Per un po’ furono davvero, come ha scritto qualcuno, "the only band that matters", l’unica band che davvero conta.

London Calling, White Man In Hammersmith Palais e Guns Of Brixton divennero i ‘luoghi’ di una mappa che ci definiva e ci dava dei punti di riferimento. Noi che non avevamo potuto "sognare la California" perché nati troppo tardi, adesso avevamo un posto a cui guardare e verso cui sognare di andare: Londra, e non la Swingin’ London, ma quella dei ghetti popolati dai giamaicani, della periferia balorda e, insomma, della rivolta. Perché a vent’anni, checché ne dica Guccini, saremo stati anche dei coglioni, ma ribellarsi è bello.

"In una città noiosa non c’è modo di divertirsi", cantavano, ma i Clash di divertimento ce ne hanno dato parecchio. Ed è stupefacente l’incredibile attualità di alcuni loro testi: "Ci hanno detto di tenere lontani gli stranieri / Non ci piace averli in mezzo ai piedi / Non li vogliamo a spasso in città / Li spazzeremo via dalla faccia della terra". O ancora: "Dicono che gli immigrati rubano i coprimozzi / Delle auto di stimati gentiluomini / Dicono che sarebbero rose e fiori / Se l’Inghilterra fosse ancora degli inglesi".

Joe e soci erano ingenui, a volte, ma l’ingenuità è sempre simbolo di un’anima pura: "Il regno delle superpotenze deve finire / Tutti questi eserciti non libereranno il mondo / Presto il rock prenderà il sopravvento e tutto cambierà". No, non è cambiato granché da quando i Clash cantavano Charlie Don’t Surf ma chissenefrega... I Clash ci hanno dato abbastanza, ci hanno dato "gloria o morte" ed è quanto si può chiedere a una canzone rock, in fondo: "Ogni perdigiorno che vuol farsi notare / E cerca l’oro nel rock’n’roll / Afferra il microfono per farci sapere / Che morirà prima di essersi venduto (...) / Da ogni sudicia cantina di ogni sudicia strada / Sento applausi entusiasti / Per ogni ritmo trascinante / Che è il battito del tempo / E deve continuare (...) Come è successo che morte o gloria è diventata solo un’altra storia".

Joe Strummer, nonostante la maglietta con la scritta "Brigate Rotte" (proprio così, "rotte" e non "rosse", non si sa per cattiva traduzione o solo per sfottimento) e gli inni da classe operaia, aveva sempre voluto diventare una rock star. Sin da quando militava nei 101’ers. Approfittò semplicemente dell’ondata punk che arrivava dall’America (il punk lo hanno inventato Patti Smith, Ramones e compagnia, non scordiamocelo, gli inglesi manco sapevano cosa fosse; lo traghettò a Londra l’astuto Malcolm McLaren che a NYC aveva fatto il manager delle New York Dolls e ‘importò’ la maglietta strappata di Johnny Thunders e la fece indossare ai Sex Pistols) per dar fuoco alle polveri del suo sogno rock. Una musica che lui, intelligentemente, innaffiò abbondantemente di ritmi giamaicani: il reggae, allora, significava ‘alternativa al sistema’. I Police ne avrebbero fatto una formula di successo, ma Sting e compagni non avrebbero mai avuto un’oncia del carisma e dell’epicità dei Clash.

I Clash avevano ‘l’attitudine rock’, cosa che nessun altro gruppo inglese del periodo poteva permettersi. Ecco perché amavamo i Clash: prima ancora di capire i testi delle loro canzoni, Strummer e soci ci avevano dato un’immagine ‘cool’ con cui identificarci, noi che, per imitare i fratelli maggiori, ci ostinavamo a vestirci ancora come hippie fuori tempo massimo. Erano la novità, ed erano una novità ‘figa’.

Ma i Clash amavano il rock classico dei Sixties, nonostante tutto, e volevano riportarlo in auge: quando andarono in tour in America per la prima volta, scelsero come supporter Bo Diddley, Sam & Dave, Lee Dorsey e Screamin’ Jay Hawkins. In seguito avrebbero chiamato anche il texano Joe Ely solo perché, come raccontò Strummer, "volevamo buttare un po’ di merda rockabilly texana in faccia a quei punk idioti che ci venivano a sentire". E I Fought The Law, di Buddy Hollie, è ancor oggi il più eccitante e travolgente remake di un classico del rock’n’roll fatto da un gruppo moderno.

I Clash erano "i quattro cavalieri" invincibili, come cantavano in Four Horsemen: "Quattro uomini a cavallo che arrivano dritti sparati / Quattro cavalieri e ti pisciano addosso / Ti fanno sembrare ridicolo / Quattro a cavallo e saremo noi quattro"; di più, erano come i magnifici sette, The Magnificent Seven: erano un gruppo di orgogliosi rocker che sul palco potevano far impallidire chiunque. Come qundo vennero chiamati a far da supporter agli Who, ormai una band in disfacimento, nell’82. Dire che rubarono lo show è dir poco...

Ma musicalmente i Clash erano anche avanti con i tempi e decisamente innovatori: passavano con noncuranza apparente dall’hard rock al reggae, reinventarono il dub e sapevano già cos’era il rap, per poi passare con facilità incredibile al vecchio rockabilly. Una miscela esplosiva, senza la quale è impossibile capire la musica di oggigiorno. E poi avevano una coppia di compositori eccezionali, nella tradizione dei grandi gruppi rock inglesi. Dopo Lennon e McCartney e Jagger e Richards, infatti, ecco Strummer e (Mick) Jones. Anche i Clash, come le coppie citate, finirono spesso in prigione o impelagati in qualche processo, ma quanto fossero diversi dalle tronfie rock star del passato, beccate dalla polizia durante qualche orgia a base di costose droghe, lo dimostrano anche le motivazioni dei loro arresti: vandalismo, furto di federe di cuscini (Strummer e Jones), spari ai piccioni (Simonon e il batterista Topper Headon)...

Con la sciocca presunzione tipica della giovinezza misero alla berlina i mostri sacri del passato ("La stupida beatlemania sta mangiando la polvere"), ma quando incontrai Joe due anni fa mi disse che per lui parlare male dei Beatles era come parlare male del Papa: una bestemmia. Ma allora suonava bene mandare a cagare i Beatles, cioè la musica dei nostri fratelli maggiori... Per non dire dell’altro slogan immortale dell’epoca: "Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel 1977". I Clash ci hanno fatto sentire orgogliosi di essere giovani e diversi. Sì, ci hanno dato un’identità.

Ma adesso, a cinquant’anni, Joe era un uomo diverso. Ovviamente, come succede a tutti noi quando si arriva negli anni della maturità. "Quando mia figlia tiene la radio a tutto volume la mando a quel paese", mi disse ridendo quando lo incontrai. "Oggi ragiono in modo diverso di quando ero più giovane. Ho ancora delle idee radicali, ma a una certa età devi venire a patti con il mondo", mi disse poi a proposito del suo impegno politico attuale. "Diventi più maturo, non hai più il tempo necessario per pensare a tutto quello che succede: una volta pensavo di entrare dritto sparato nel mondo, oggi penso di aggirarlo, di passarci sopra. Quando sei giovane ti spacchi la testa contro il muro. Oggi cerco di pensare alle cose da un punto di vista più complesso, direi più intelligente, più sottile, ma sempre pericoloso. Credo anzi sia ancora più pericoloso, perché non sembra lo sia. Quando sei in un gruppo punk, ti metti a urlare ‘HEYYY’. A un certo punto ti stanchi di urlare. Preferisci sussurrare, è più eccitante…"

Si considerava "il protettore ufficiale" di tutti i giovani gruppi punk: "Guai a voi se dite qualcosa di male contro i giovani musicisti punk!".

Joe era troppo simpatico. Per tutto il tempo che lo intervistai continuò a giocherellare con il mio registratore, evidentemente affascinato dall’oggetto. A un certo punto gli dissi se lo voleva. "No", rispose, "è meglio che lo tieni. Non fanno più cose così buone oggigiorno. Bisognerebbe sempre comprarne due, quando fanno delle robe fatte bene..." Come sempre aveva ragione...

Fino al suo ultimo giorno di vita, Joe è stato impegnatissimo. Aveva da poco (maledetta ironia della vita) ritrovato la voglia di fare musica: due dischi, con la sua nuova band, i Mescaleros, di nuovo tournée e ancora impegno sociale. Come quel concerto in beneficenza dei pompieri inglesi, pochi giorni prima della sua morte. Un concerto che passerà alla storia non solo come una delle sue ultime esibizioni, ma anche perché era salito sul palco, dopo una separazione durata esattamente vent’anni, un ospite speciale, un certo Mick Jones. Ci sarebbe stata, poi, la Rock And Roll Hall Of Fame, a cui i Clash saranno introdotti il prossimo marzo, con l’annunciata e attesissima reunion sul palco (ancora quella maledetta ironia della vita). Era un passo importante per Strummer, che aveva una difficilissima relazione con il suo passato da membro dei Clash: "Pensare ai Clash mi fa lo stesso effetto che ha per un reduce ripensare alla guerra in Vietnam", mi aveva detto. Era facile credergli, visto che cosa ha significato quella band per milioni di persone. Certi fardelli da portare sulle spalle sono davvero pesanti, per chi ha il cuore buono...

Aveva appena scritto una canzone con Bono e Dave Stewart per il concerto contro l’Aids voluto da Nelson Mandela e a cui avrebbe dovuto partecipare il prossimo mese di febbraio. E c’era un disco nuovo, a cui aveva appena finito di lavorare, che doveva uscire (e sicuramente uscirà) nei prossimi mesi.

E c’ero io che aspettavo di intervistarlo di nuovo, una volta uscito l’album. Speravo di rivederlo di persona. Ma non ci sarà una prossima intervista.

"They’re rockin’ the casbah in heaven", hanno detto, adesso che sei nel paradiso dei rocker. Ma mi manchi, mi manchi maledettamente, Joe Strummer. Cazzo, te ne sei andato troppo presto...

Paolo Vites