"OUT ON THE STREET" di Mauro Zaccuri
Quando la musica sapeva parlare
IL TRENTENNALE DEI CLASH (1976 - 2006)

 
5 – DEATH OR GLORY, UN PASSO AVANTI PER NON SCOMPARIRE
La svolta di London Calling e la conquista dell'America

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“Non essere dispiaciuto di utilizzare la parola paradosso. Noi non siamo come ogni altra falsa rock-band tipo Boston o Aerosmith. Abbiamo un buon carico di contraddizioni per te. Abbiamo provato ad essere il miglior gruppo nel mondo. Nello stesso tempo, abbiamo cercato di essere radicali, non abbiamo mai cercato di essere rispettabili. Può essere che le due cose insieme non possano coesistere. Ma noi ci abbiamo provato”. ( Joe Strummer, nel 1982, ad un giornalista del NME)

Il cambio di direzione era nell’aria già dal 1978. Dalle tribolate sessioni in studio con Sandy Pearlman per “Give ‘em Enough Rope” e relativo primo contatto con gli States (San Francisco-New York) di Strummer e Jones, dal progressivo, inesorabile distacco con Bernie Rhodes, sempre meno interessato ai nuovi testi della band, dal default dei Sex Pistols, dalla crisi della scena punk-rock, dal contratto sottoscritto con la Cbs e conseguente ingresso nello “star-system”, dalla preoccupazione, più volte espressa, di rimanere ancorati ad un cliché, quello punk, a loro avviso ormai privo della spontaneità e dello spirito innovativo degli esordi, tutto faceva presagire alla formalizzazione di uno scarto netto, consapevole e definitivo.
Particolarmente agitata (la causa legale provocò seri danni finanziari alla band) e con robusta coda di polemiche fu la separazione con l’ex manager Bernie Rhodes. “Li ho presi dalla strada e li ho fatti diventare quello che sono, e adesso sono fuori. Ho percepito che loro hanno cominciato ad escludermi sin dall’anno scorso, un anno nel quale non hanno combinato nulla. Non riesco a vedere il mio lavoro piegato su stupide azioni accondiscendenti come quelle che loro hanno fatto, tipo registrare in un grande studio a New York o soggiornare negli hotel a cinque stelle. E’ questo che fondamentalmente ci ha diviso”, fu la dichiarazione di Rhodes dopo il divorzio. La reazione dei Clash riconosceva il ruolo importantissimo che l’ex manager ebbe per il loro esordio, ma allo stesso tempo sottolineava il metodo opprimente di Rhodes nella conduzione manageriale del gruppo, definita scherzosamente staliniana (l’aspetto umoristico fu un tratto caratteristico di tutti i componenti dei Clash, anche se il più brillante in questo era Joe Strummer) da parte di Mick Jones : “Penso che fosse un’ambizione di Bernie quella di avere una città intitolata a suo nome, sul modello di Stalin con Stalingrad”. Riprende complice Joe Strummer : “E’ vero stava cercando di rinominare Camden Town. Voleva chiamarla Berniegrad”. “Bernie ha i piedi in molte scarpe”, continuava Strummer, e si riferiva al fatto che Rhodes non appariva più concentrato sui Clash, ma seguiva da vicino l’evoluzione di altri gruppi, tipo i Subway Sect. Il gruppo stava crescendo, stava componendo nuove canzoni con stile diverso, ma Rhodes appariva sempre più defilato. In fondo non fu proprio Rhodes a far sottoscrivere alla band il contratto con una multinazionale come la Cbs? Adesso il contratto diventava un problema perché costringeva indirettamente i Clash a maggiori responsabilità rispetto al passato, a passaggi obbligati nell’ottica di una major. Cosa avrebbero potuto o dovuto fare i Clash in questa situazione se non cercare di restare il più coerenti possibili ?
“In un business di ciarlatani, farabutti e manipolatori, i Clash rimasero vicini al progetto iniziale nel modo migliore che si potesse fare”, ha dichiarato Keith Topping nel suo bel libro del 2003. Sono d’accordo con lui. E poi c’era il problema della mancanza di quattrini, come testimonia efficacemente il road manager Johnny Green : “Non avevamo soldi. Anche per le cose più stupide, tipo la benzina o le corde per chitarra. Se portavi a Rhodes questi problemi, lui ti rispondeva citando il Movimento Situazionista e Parigi nel ’68, ed io gli rispondevo : Ma cazzo Bernie, ho bisogno solo di qualche corda di chitarra !!”.
Sul finire del 1978, la band milionaria intenta a gozzovigliare nei migliori hotel newyorkesi descritta da Rhodes, suonò al Music Machine di Londra insieme alle Slits per un concerto (“The Sid Vicious Defence Fund Night”) il cui incasso venne devoluto alla madre di Sid Vicious, Anne Beverley, per pagare le spese legali di suo figlio in quel momento in carcere negli States. Quattro mesi dopo i Clash provarono anche a mettere in piedi un concerto “abusivo” e spontaneo contro la chiusura del Beaufort Market, molto frequentato dai punk londinesi a causa dei bassi prezzi praticati dai commercianti. La polizia però riuscì a bloccare il furgone con la strumentazione ed evitò l’improvvisato live, scatenando la reazione di circa 2.000 punk che si scontrarono duramente con i bobbies.
Dove stava allora il problema ? In qualche vizietto di Mick Jones o nei suoi capelli lunghi? Nelle pose da fotomodello di Paul Simonon ? Nel successo americano che cominciava a profilarsi all’orizzonte ? Nell’aver tagliato con il punk ? Oppure ancora nelle dichiarazioni di Joe Strummer e compagnia che manifestavano adesso la centralità della loro musica rispetto agli aspetti politici ?
Contraddizioni, malignità, confusione, era quello che buona parte della stampa inglese (odiata da Strummer) metteva in giro riguardo ai Clash.
Probabilmente la maggior parte della stampa ed i media in genere avrebbero voluto vedere i Clash immolarsi e crepare artisticamente (magari anche fisicamente…, gli esempi non mancherebbero) nel nome degli ideali del punk e della rivoluzione culturale che il movimento aveva generato. Avrebbero così potuto creare il mito assoluto dei quattro ragazzi della Westway che scomparivano nel tentativo di opporsi al famoso “sistema”.
Ma l’idealismo dei Clash era sincero, a differenza dei sentimenti di chi stava dall’altra parte (leggi stampa e media): loro sì parte integrante dell’industria discografica e del “sistema”. I mass-media creano la scena, il suo look, i suoi punti di ritrovo, determinano gli eroi di questa scena, distruggono le band che escono dalla schema prefissato. I Clash percepirono in fretta di essere, in ogni caso, all’interno di una industria regolata da queste logiche di fondo, e si prepararono a giocare una lunga partita con poche regole e senza comportamenti predeterminati, consapevoli che il “loro punk” ed il ‘77 erano alle spalle. Un rabbioso Joe Strummer nel 1981 : “I punk hanno voluto restare sulle stesse posizioni, e questo ci ha portato ad annullare il nostro interesse in loro. Adesso hanno quello che si meritano : fondamentalmente un mucchio di spazzatura”. Nell’anno della svolta invece i Clash si chiusero a riccio : “E’ vero, siamo fottuti, ma non abbastanza per chiudere qui. C’è una strada di fronte a noi. Voglio sopravvivere e voglio che i Clash sopravvivano. L’unica cosa che ci interessa sono i Clash”, disse Joe Strummer al NME nel 1979. Ancora Strummer al Melody Maker nello stesso anno : “Quello che sto cercando di dire è che dobbiamo fare un passo avanti, noi speriamo di andare oltre questo scenario”. I Clash apparivano quindi in difesa, sembravano volutamente voler diminuire le aspettative e le pressioni che si erano create intorno a loro, gli alfieri della musica da combattimento, quelli che volevano cambiare il mondo a furia di accordi. Invece la loro attitudine era integra, i Clash si stavano solo compattando senza mollare niente sia riguardo le proprie convinzioni sia riguardo le proprie responsabilità nei confronti del pubblico, stavano lavorando duro e con orgoglio intorno al loro progetto, stavano per staccare tutti, consapevoli del loro grande miglioramento tecnico : “adesso stiamo facendo qualcosa che non avremmo potuto fare prima”. Nel febbraio 1979 la Thatcher prese il potere in Gran Bretagna. “Maggie Thatcher, Milk Snatcher” (ove Milk Snatcher sta per “rapitrice di latte”), l’epiteto affibbiatole quando era ministro nel governo Heat e bloccò (gesto davvero eroico) le forniture di latte gratuito alle scuole inglesi, era riuscita ad imporre la propria leadership nel partito dei Tories, ed il Regno Unito si preparava a vivere anni di duri scontri sociali, di scioperi storici, che videro il sindacato sconfitto e conseguente ascesa del conservatorismo più reazionario.
Come detto i Clash guardavano avanti ma l’attenzione verso i temi sociali, a maggior ragione in questo periodo, rimase sempre al centro del loro modo d’essere : nel giugno del 1979 la reggae-band inglese Misty In Roots venne attaccata duramente da teppisti fascisti a Southall e nella conseguente manifestazione di protesta vennero arrestati diversi dimostranti. Subito Rock Against Racism organizzò il “Southall Defence Fund”, una due giorni di concerti al Rainbow di Londra, attraverso i quali raccogliere i fondi necessari per assistere legalmente gli arrestati. Alla data del 13 luglio si esibirono gli Who, in quella successiva del 14 i Clash, supportati da Aswad e The Members. “ I Clash sono cambiati, in meglio o in peggio, hanno un grande look, moderno. Ci sono nuove canzoni, controverse nella loro accettabilità, ma, nello spirito di quello che chiamiamo il loro “nuovo corso”, i Clash stanno suonando le stesse loro vecchie canzoni. E le suonano bene come sempre”, commentò così il concerto Robbi Millar, un giornalista del Sounds. I Clash “stavano suonavano sempre la stessa canzone” ed una larga parte della loro audience se n’era accorta. Loro furono una delle poche band che, nonostante stessero ai vertici del rock’n’roll, si potevano ancora definire “vere” (e quindi politiche, scusate se insisto) senza poi sogghignare di soppiatto. I Clash crebbero in tempi rapidissimi e misero al centro di tutto la loro musica, senza però perdere, nella sostanza, l’onore e la loro essenziale coscienza ribelle.
Quello che invece , come già detto,sembrava essere una costante nella vita della band, era la cronica mancanza di denaro. Venne organizzata, nell’agosto del 1979 una data a Turku, in Finlandia, dove i Clash (che suonarono insieme a Graham Parker and The Rumors) raccolsero una buona somma di denaro per pagare le spese delle nuove registrazioni ai Vessex Studios (dopo la separazione con Rhodes, era stato infatti abbandonato lo storico “luogo di ritrovo” Rehearsal Rehearsals, e per le prove la strumentazione venne trasferita al Vanilla in Causton Street). Si procedeva praticamente in autogestione, con la scelta di limitare al massimo i costi di registrazione ed affidando al talentuoso ed anarchico Guy Stevens il compito di produrre il nuovo album, mentre Bill Price era l’ingegnere del suono. La programmazione non era certo il punto forte dei Clash. La fotografa Pennie Smith ebbe modo di dire: “Ci sono due tipi di gruppi: romantici e classici. I Clash erano romantici. Ogni cosa era caotica, niente era pianificato. Fu questo a farli diventare così grandi”. Tornando al Vessex Studio, bisogna ricordare che fu Joe Strummer a volere fortemente Guy Stevens (già produttore dei Mott The Hoople) alla regia, perché lui poteva offrire una connessione immediata con la “musica delle radici”, una musica che i Clash avevano deciso di andare a conoscere sempre più da vicino, memori delle loro passioni giovanili mai dimenticate. Ecco quindi che generi come rithm’n’blues, soul, rock’n’roll, entrarono fragorosamente nei nuovi pezzi dei Clash, insieme alla ormai abituale presenza di reggae, ska e, successivamente, dub. Stevens era dunque un appassionato della musica americana, ma era anche profondamente inglese, con le stesse passioni ispiratrici e le matrici culturali e sociali dei “quattro cavalieri”. Una via americana, maturata attraverso la rabbia della classe lavoratrice inglese e la coscienza morale della reggae music. Cocktail esplosivo, nasceva così il Clash Sound, la più ampia rassegna possibile di tutte le strade che portano alla musica popolare. L’apertura al mondo attraverso la musica popolare, quella “roots music” da sempre nella testa soprattutto di Joe Strummer, partorì il capolavoro, il doppio album che è entrato nella storia della musica rock, “London Calling” (3 Dicembre 1979). Il lavoro in studio svolto da Mick Jones e compagni, Bill Price e Guy Stevens (purtroppo limitato da un massiccio consumo di alcolici e droghe, già trasformatosi in vera e propria patologia) aveva fatto davvero centro. A questo discorso prettamente musicale vanno aggiunti quelli, non meno importanti nella logica dei Clash, relativi alla sempre più articolata composizione delle liriche ed al rapporto con la Cbs. Per quanto concerne i testi , è interessante notare come anche Paul Simonon si cimentò efficacemente con la scrittura, realizzando il testo della pugnace e memorabile “The Guns Of Brixton”. Ecco le ironiche “motivazioni” che portarono Simonon a scrivere : “Ti pagano quando scrivi canzoni. Io curavo la grafica ed il look, ma non prendevo un pound per questo. Ho pensato allora che avrei dovuto essere maggiormente coinvolto nella scrittura dei pezzi”. Invece, nel tormentato rapporto con la propria casa discografica, i Clash colsero la prima vera vittoria. Grazie alla riduzione dei costi in studio ed a una intransigente battaglia con la Cbs, la band riuscì a spuntare un prezzo di vendita davvero interessante : un doppio album al prezzo di uno. Qualcun altro a quel livello poteva vantarsi di operazioni simili, che davvero andavano incontro ai ragazzi fruitori della loro musica?

Il 1979 fu anche l’anno della vera “conquista” del mercato americano con il tour “Take The Fifth”, quello che vedeva al seguito dei Clash anche l’ottimo disegnatore del NME Ray Lowry (che si dovette pagare il volo aereo in quanto la Cbs non era disposta ad aumentare di un penny il proprio budget). Ma è con il primissimo tour americano, il “Pearl Harbour Tour” del gennaio-febbraio 1979 (insieme al blues man Bo Diddley), che nasce il primo contatto, criticato da parte della stampa specializzata inglese, fra i Clash e l’America. Il tour in realtà non fu un completo successo, anche se non mancarono concerti sold-out e recensioni entusiaste della stampa statunitense. I Clash “volevano vedere l’America”, come disse Mick Jones, volevano vedere un altro pezzo di mondo oltre Camden Town. E lo fecero, con tutto il loro carico di speranze e di esuberanze giovanili. Nessun dubbio sul fatto che le radici musicali di Strummer, Jones ed anche Topper Headon stessero lì, negli States, dove nacque il r’n’r. Come tutti sanno loro scrissero “I’m So Bored With The Usa” (con la quale aprivano ironicamente i concerti del tour) ma poi rimasero stregati dal fascino dell’America come notava Uncut : “I Clash trovarono lì una casa spirituale in una terra di fuorilegge, di spostati, di gente di frontiera”, ed in effetti sono tutti argomenti che ritroveremo nelle loro canzoni, fino ad arrivare a quelle recentissime di Joe Strummer (vedi la splendida “Long Shadow” in Streetcore). Scrissero anche, nel ’76, “Chuck Berry Is Dead” sulle magliette, ma amavano fortemente lo spirito ribelle del rock’n’roll anni ’50. Ed infatti fondamentalmente i Clash sbarcarono in USA con un’idea : riportare alla ribalta le vere radici della musica popolare americana presso i giovani statunitensi, altro che il rock levigato dei Boston o dei Kansas. Portarono sul palco insieme a loro storici musicisti di colore come Lee Dorsey e Bo Diddley, blues e r’n’b carichi di storia e di personalità. Vinsero, di nuovo, la sfida dove altri fallirono clamorosamente. Da Londra a New York con la loro musica, il loro atteggiamento aggressivo e l’attitudine del punk inglese, e la cosa non passò inosservata, tanto che nel concerto del New York Palladium del 17 febbraio ’79 lo spettatore Andy Warhol disse : “I Clash erano attraenti, ma avevano una brutta dentatura ed urlavano di volersi liberare dai ricchi !!”, nel party successivo al concerto Strummer stava con Warhol ed i suoi amici e fu davvero una strana esperienza : “Realizzai che mi stavano ispezionando come se fossi un interessante minatore inglese conosciuto sull’autostrada”.
Guardando dall’esterno si potrebbe arrivare a dire che i Clash sfruttarono anche una loro apparente contraddizione per sfondare in America : erano contemporaneamente ultra-britannici ed anti-britannici allo stesso tempo. Con questo tipo di approccio riuscirono a creare una specie di ponte sull’Atlantico, mantenendo da una parte, ed in modo netto, la loro identità di ragazzi della “working class” inglese e dall’altra assorbendo e integrando gradualmente nella loro musica e nelle loro personalità il meglio della cultura americana ed afro-americana di quel periodo (pensiamo al rap, al rapporto con Ginsberg…). “All’inizio fu un po’ come dire : ok, tenetevi tutti i vostri Stati Uniti, i vostri cliches circa il rock americano, perché noi vogliamo cantare di cose che riguardano i posti da cui veniamo” (Mark Perry da Uncut, 2003), poi a poco a poco “lo scambio” cominciò a produrre i suoi effetti. Una cosa però è certa : l’intelligenza, la sensibilità, la compattezza e la mentalità aperta del gruppo fecero sì che i Clash non si appiattirono mai sull’America (bastare leggere i testi di “Charlie Don’t Surf” e “Washington Bullets” per averne certezza), ma offrirono al pubblico americano qualcosa di vero e nuovo proveniente dal vecchio continente. La già citata “via americana” del Clash sound. Ad avvalorare il fatto che il gruppo mantenne sempre una propria identità (anche politica) va detto che durante il primo breve tour negli States i Clash presero anche contatto con diverse organizzazioni ed attivisti politici al fine di conoscere in modo più approfondito la realtà della società americana. Un incontro a San Francisco fu molto importante : quello con un reduce del Vietnam, Mo Armstrong, che introdusse ai Clash il tema del movimento Sandinista e della situazione in Nicaragua, ignorata dalla stampa mondiale. La dura critica alla politica imperialista americana in Nicaragua la ritroveremo,in modo fragoroso, un paio di anni dopo con il triplo “Sandinista!”. Questo fecero i Clash, anche se il processo non fu semplice, ,ma pieno di insidie e tentazioni,di quelle che solo l’America sa proporre con determinate modalità, come la storia insegna. Nota di colore : i Clash in America furono anche entusiasti turisti, e si spinsero, nel febbraio ’79, in una visita mattutina a Washington alla Casa Bianca. I commenti che ne seguirono furono sorprendentemente tecnici e rispettosi, leggete le parole di Johnny Green : “Sembra una cazzo di linda toilette, non mi dite che controllano tutto il mondo da qui !! “