5
– DEATH OR GLORY, UN PASSO AVANTI PER NON SCOMPARIRE
La svolta di London Calling e la
conquista dell'America |
Nota
: Sull'articolo non esiste alcun copyright. La sua riproduzione è
dunque libera e consentita , purché non sia a fini commerciali
o di lucro. Vi chiediamo solo, se del caso, di citare il sito e l'autore
del pezzo.
“Non
essere dispiaciuto di utilizzare la parola paradosso. Noi non siamo
come ogni altra falsa rock-band tipo Boston o Aerosmith. Abbiamo un
buon carico di contraddizioni per te. Abbiamo provato ad essere il miglior
gruppo nel mondo. Nello stesso tempo, abbiamo cercato di essere radicali,
non abbiamo mai cercato di essere rispettabili. Può essere che
le due cose insieme non possano coesistere. Ma noi ci abbiamo provato”.
( Joe Strummer, nel 1982, ad un giornalista del NME)
Il
cambio di direzione era nell’aria già dal 1978. Dalle tribolate
sessioni in studio con Sandy Pearlman per “Give ‘em Enough
Rope” e relativo primo contatto con gli States (San Francisco-New
York) di Strummer e Jones, dal progressivo, inesorabile distacco con
Bernie Rhodes, sempre meno interessato ai nuovi testi della band, dal
default dei Sex Pistols, dalla crisi della scena punk-rock, dal contratto
sottoscritto con la Cbs e conseguente ingresso nello “star-system”,
dalla preoccupazione, più volte espressa, di rimanere ancorati
ad un cliché, quello punk, a loro avviso ormai privo della spontaneità
e dello spirito innovativo degli esordi, tutto faceva presagire alla
formalizzazione di uno scarto netto, consapevole e definitivo.
Particolarmente agitata (la causa legale provocò seri danni finanziari
alla band) e con robusta coda di polemiche fu la separazione con l’ex
manager Bernie Rhodes. “Li ho presi dalla strada e li ho fatti
diventare quello che sono, e adesso sono fuori. Ho percepito che loro
hanno cominciato ad escludermi sin dall’anno scorso, un anno nel
quale non hanno combinato nulla. Non riesco a vedere il mio lavoro piegato
su stupide azioni accondiscendenti come quelle che loro hanno fatto,
tipo registrare in un grande studio a New York o soggiornare negli hotel
a cinque stelle. E’ questo che fondamentalmente ci ha diviso”,
fu la dichiarazione di Rhodes dopo il divorzio. La reazione dei Clash
riconosceva il ruolo importantissimo che l’ex manager ebbe per
il loro esordio, ma allo stesso tempo sottolineava il metodo opprimente
di Rhodes nella conduzione manageriale del gruppo, definita scherzosamente
staliniana (l’aspetto umoristico fu un tratto caratteristico di
tutti i componenti dei Clash, anche se il più brillante in questo
era Joe Strummer) da parte di Mick Jones : “Penso che fosse un’ambizione
di Bernie quella di avere una città intitolata a suo nome, sul
modello di Stalin con Stalingrad”. Riprende complice Joe Strummer
: “E’ vero stava cercando di rinominare Camden Town. Voleva
chiamarla Berniegrad”. “Bernie ha i piedi in molte scarpe”,
continuava Strummer, e si riferiva al fatto che Rhodes non appariva
più concentrato sui Clash, ma seguiva da vicino l’evoluzione
di altri gruppi, tipo i Subway Sect. Il gruppo stava crescendo, stava
componendo nuove canzoni con stile diverso, ma Rhodes appariva sempre
più defilato. In fondo non fu proprio Rhodes a far sottoscrivere
alla band il contratto con una multinazionale come la Cbs? Adesso il
contratto diventava un problema perché costringeva indirettamente
i Clash a maggiori responsabilità rispetto al passato, a passaggi
obbligati nell’ottica di una major. Cosa avrebbero potuto o dovuto
fare i Clash in questa situazione se non cercare di restare il più
coerenti possibili ?
“In un business di ciarlatani, farabutti e manipolatori, i Clash
rimasero vicini al progetto iniziale nel modo migliore che si potesse
fare”, ha dichiarato Keith Topping nel suo bel libro del 2003.
Sono d’accordo con lui. E poi c’era il problema della mancanza
di quattrini, come testimonia efficacemente il road manager Johnny Green
: “Non avevamo soldi. Anche per le cose più stupide, tipo
la benzina o le corde per chitarra. Se portavi a Rhodes questi problemi,
lui ti rispondeva citando il Movimento Situazionista e Parigi nel ’68,
ed io gli rispondevo : Ma cazzo Bernie, ho bisogno solo di qualche corda
di chitarra !!”.
Sul finire del 1978, la band milionaria intenta a gozzovigliare nei
migliori hotel newyorkesi descritta da Rhodes, suonò al Music
Machine di Londra insieme alle Slits per un concerto (“The Sid
Vicious Defence Fund Night”) il cui incasso venne devoluto alla
madre di Sid Vicious, Anne Beverley, per pagare le spese legali di suo
figlio in quel momento in carcere negli States. Quattro mesi dopo i
Clash provarono anche a mettere in piedi un concerto “abusivo”
e spontaneo contro la chiusura del Beaufort Market, molto frequentato
dai punk londinesi a causa dei bassi prezzi praticati dai commercianti.
La polizia però riuscì a bloccare il furgone con la strumentazione
ed evitò l’improvvisato live, scatenando la reazione di
circa 2.000 punk che si scontrarono duramente con i bobbies.
Dove stava allora il problema ? In qualche vizietto di Mick Jones o
nei suoi capelli lunghi? Nelle pose da fotomodello di Paul Simonon ?
Nel successo americano che cominciava a profilarsi all’orizzonte
? Nell’aver tagliato con il punk ? Oppure ancora nelle dichiarazioni
di Joe Strummer e compagnia che manifestavano adesso la centralità
della loro musica rispetto agli aspetti politici ?
Contraddizioni, malignità, confusione, era quello che buona parte
della stampa inglese (odiata da Strummer) metteva in giro riguardo ai
Clash.
Probabilmente la maggior parte della stampa ed i media in genere avrebbero
voluto vedere i Clash immolarsi e crepare artisticamente (magari anche
fisicamente…, gli esempi non mancherebbero) nel nome degli ideali
del punk e della rivoluzione culturale che il movimento aveva generato.
Avrebbero così potuto creare il mito assoluto dei quattro ragazzi
della Westway che scomparivano nel tentativo di opporsi al famoso “sistema”.
Ma l’idealismo dei Clash era sincero, a differenza dei sentimenti
di chi stava dall’altra parte (leggi stampa e media): loro sì
parte integrante dell’industria discografica e del “sistema”.
I mass-media creano la scena, il suo look, i suoi punti di ritrovo,
determinano gli eroi di questa scena, distruggono le band che escono
dalla schema prefissato. I Clash percepirono in fretta di essere, in
ogni caso, all’interno di una industria regolata da queste logiche
di fondo, e si prepararono a giocare una lunga partita con poche regole
e senza comportamenti predeterminati, consapevoli che il “loro
punk” ed il ‘77 erano alle spalle. Un rabbioso Joe Strummer
nel 1981 : “I punk hanno voluto restare sulle stesse posizioni,
e questo ci ha portato ad annullare il nostro interesse in loro. Adesso
hanno quello che si meritano : fondamentalmente un mucchio di spazzatura”.
Nell’anno della svolta invece i Clash si chiusero a riccio : “E’
vero, siamo fottuti, ma non abbastanza per chiudere qui. C’è
una strada di fronte a noi. Voglio sopravvivere e voglio che i Clash
sopravvivano. L’unica cosa che ci interessa sono i Clash”,
disse Joe Strummer al NME nel 1979. Ancora Strummer al Melody Maker
nello stesso anno : “Quello che sto cercando di dire è
che dobbiamo fare un passo avanti, noi speriamo di andare oltre questo
scenario”. I Clash apparivano quindi in difesa, sembravano volutamente
voler diminuire le aspettative e le pressioni che si erano create intorno
a loro, gli alfieri della musica da combattimento, quelli che volevano
cambiare il mondo a furia di accordi. Invece la loro attitudine era
integra, i Clash si stavano solo compattando senza mollare niente sia
riguardo le proprie convinzioni sia riguardo le proprie responsabilità
nei confronti del pubblico, stavano lavorando duro e con orgoglio intorno
al loro progetto, stavano per staccare tutti, consapevoli del loro grande
miglioramento tecnico : “adesso stiamo facendo qualcosa che non
avremmo potuto fare prima”. Nel febbraio 1979 la Thatcher prese
il potere in Gran Bretagna. “Maggie Thatcher, Milk Snatcher”
(ove Milk Snatcher sta per “rapitrice di latte”), l’epiteto
affibbiatole quando era ministro nel governo Heat e bloccò (gesto
davvero eroico) le forniture di latte gratuito alle scuole inglesi,
era riuscita ad imporre la propria leadership nel partito dei Tories,
ed il Regno Unito si preparava a vivere anni di duri scontri sociali,
di scioperi storici, che videro il sindacato sconfitto e conseguente
ascesa del conservatorismo più reazionario.
Come detto i Clash guardavano avanti ma l’attenzione verso i temi
sociali, a maggior ragione in questo periodo, rimase sempre al centro
del loro modo d’essere : nel giugno del 1979 la reggae-band inglese
Misty In Roots venne attaccata duramente da teppisti fascisti a Southall
e nella conseguente manifestazione di protesta vennero arrestati diversi
dimostranti. Subito Rock Against Racism organizzò il “Southall
Defence Fund”, una due giorni di concerti al Rainbow di Londra,
attraverso i quali raccogliere i fondi necessari per assistere legalmente
gli arrestati. Alla data del 13 luglio si esibirono gli Who, in quella
successiva del 14 i Clash, supportati da Aswad e The Members. “
I Clash sono cambiati, in meglio o in peggio, hanno un grande look,
moderno. Ci sono nuove canzoni, controverse nella loro accettabilità,
ma, nello spirito di quello che chiamiamo il loro “nuovo corso”,
i Clash stanno suonando le stesse loro vecchie canzoni. E le suonano
bene come sempre”, commentò così il concerto Robbi
Millar, un giornalista del Sounds. I Clash “stavano suonavano
sempre la stessa canzone” ed una larga parte della loro audience
se n’era accorta. Loro furono una delle poche band che, nonostante
stessero ai vertici del rock’n’roll, si potevano ancora
definire “vere” (e quindi politiche, scusate se insisto)
senza poi sogghignare di soppiatto. I Clash crebbero in tempi rapidissimi
e misero al centro di tutto la loro musica, senza però perdere,
nella sostanza, l’onore e la loro essenziale coscienza ribelle.
Quello che invece , come già detto,sembrava essere una costante
nella vita della band, era la cronica mancanza di denaro. Venne organizzata,
nell’agosto del 1979 una data a Turku, in Finlandia, dove i Clash
(che suonarono insieme a Graham Parker and The Rumors) raccolsero una
buona somma di denaro per pagare le spese delle nuove registrazioni
ai Vessex Studios (dopo la separazione con Rhodes, era stato infatti
abbandonato lo storico “luogo di ritrovo” Rehearsal Rehearsals,
e per le prove la strumentazione venne trasferita al Vanilla in Causton
Street). Si procedeva praticamente in autogestione, con la scelta di
limitare al massimo i costi di registrazione ed affidando al talentuoso
ed anarchico Guy Stevens il compito di produrre il nuovo album, mentre
Bill Price era l’ingegnere del suono. La programmazione non era
certo il punto forte dei Clash. La fotografa Pennie Smith ebbe modo
di dire: “Ci sono due tipi di gruppi: romantici e classici. I
Clash erano romantici. Ogni cosa era caotica, niente era pianificato.
Fu questo a farli diventare così grandi”. Tornando al Vessex
Studio, bisogna ricordare che fu Joe Strummer a volere fortemente Guy
Stevens (già produttore dei Mott The Hoople) alla regia, perché
lui poteva offrire una connessione immediata con la “musica delle
radici”, una musica che i Clash avevano deciso di andare a conoscere
sempre più da vicino, memori delle loro passioni giovanili mai
dimenticate. Ecco quindi che generi come rithm’n’blues,
soul, rock’n’roll, entrarono fragorosamente nei nuovi pezzi
dei Clash, insieme alla ormai abituale presenza di reggae, ska e, successivamente,
dub. Stevens era dunque un appassionato della musica americana, ma era
anche profondamente inglese, con le stesse passioni ispiratrici e le
matrici culturali e sociali dei “quattro cavalieri”. Una
via americana, maturata attraverso la rabbia della classe lavoratrice
inglese e la coscienza morale della reggae music. Cocktail esplosivo,
nasceva così il Clash Sound, la più ampia rassegna possibile
di tutte le strade che portano alla musica popolare. L’apertura
al mondo attraverso la musica popolare, quella “roots music”
da sempre nella testa soprattutto di Joe Strummer, partorì il
capolavoro, il doppio album che è entrato nella storia della
musica rock, “London Calling” (3 Dicembre 1979). Il lavoro
in studio svolto da Mick Jones e compagni, Bill Price e Guy Stevens
(purtroppo limitato da un massiccio consumo di alcolici e droghe, già
trasformatosi in vera e propria patologia) aveva fatto davvero centro.
A questo discorso prettamente musicale vanno aggiunti quelli, non meno
importanti nella logica dei Clash, relativi alla sempre più articolata
composizione delle liriche ed al rapporto con la Cbs. Per quanto concerne
i testi , è interessante notare come anche Paul Simonon si cimentò
efficacemente con la scrittura, realizzando il testo della pugnace e
memorabile “The Guns Of Brixton”. Ecco le ironiche “motivazioni”
che portarono Simonon a scrivere : “Ti pagano quando scrivi canzoni.
Io curavo la grafica ed il look, ma non prendevo un pound per questo.
Ho pensato allora che avrei dovuto essere maggiormente coinvolto nella
scrittura dei pezzi”. Invece, nel tormentato rapporto con la propria
casa discografica, i Clash colsero la prima vera vittoria. Grazie alla
riduzione dei costi in studio ed a una intransigente battaglia con la
Cbs, la band riuscì a spuntare un prezzo di vendita davvero interessante
: un doppio album al prezzo di uno. Qualcun altro a quel livello poteva
vantarsi di operazioni simili, che davvero andavano incontro ai ragazzi
fruitori della loro musica?
Il
1979 fu anche l’anno della vera “conquista” del mercato
americano con il tour “Take The Fifth”, quello che vedeva
al seguito dei Clash anche l’ottimo disegnatore del NME Ray Lowry
(che si dovette pagare il volo aereo in quanto la Cbs non era disposta
ad aumentare di un penny il proprio budget). Ma è con il primissimo
tour americano, il “Pearl Harbour Tour” del gennaio-febbraio
1979 (insieme al blues man Bo Diddley), che nasce il primo contatto,
criticato da parte della stampa specializzata inglese, fra i Clash e
l’America. Il tour in realtà non fu un completo successo,
anche se non mancarono concerti sold-out e recensioni entusiaste della
stampa statunitense. I Clash “volevano vedere l’America”,
come disse Mick Jones, volevano vedere un altro pezzo di mondo oltre
Camden Town. E lo fecero, con tutto il loro carico di speranze e di
esuberanze giovanili. Nessun dubbio sul fatto che le radici musicali
di Strummer, Jones ed anche Topper Headon stessero lì, negli
States, dove nacque il r’n’r. Come tutti sanno loro scrissero
“I’m So Bored With The Usa” (con la quale aprivano
ironicamente i concerti del tour) ma poi rimasero stregati dal fascino
dell’America come notava Uncut : “I Clash trovarono lì
una casa spirituale in una terra di fuorilegge, di spostati, di gente
di frontiera”, ed in effetti sono tutti argomenti che ritroveremo
nelle loro canzoni, fino ad arrivare a quelle recentissime di Joe Strummer
(vedi la splendida “Long Shadow” in Streetcore). Scrissero
anche, nel ’76, “Chuck Berry Is Dead” sulle magliette,
ma amavano fortemente lo spirito ribelle del rock’n’roll
anni ’50. Ed infatti fondamentalmente i Clash sbarcarono in USA
con un’idea : riportare alla ribalta le vere radici della musica
popolare americana presso i giovani statunitensi, altro che il rock
levigato dei Boston o dei Kansas. Portarono sul palco insieme a loro
storici musicisti di colore come Lee Dorsey e Bo Diddley, blues e r’n’b
carichi di storia e di personalità. Vinsero, di nuovo, la sfida
dove altri fallirono clamorosamente. Da Londra a New York con la loro
musica, il loro atteggiamento aggressivo e l’attitudine del punk
inglese, e la cosa non passò inosservata, tanto che nel concerto
del New York Palladium del 17 febbraio ’79 lo spettatore Andy
Warhol disse : “I Clash erano attraenti, ma avevano una brutta
dentatura ed urlavano di volersi liberare dai ricchi !!”, nel
party successivo al concerto Strummer stava con Warhol ed i suoi amici
e fu davvero una strana esperienza : “Realizzai che mi stavano
ispezionando come se fossi un interessante minatore inglese conosciuto
sull’autostrada”.
Guardando dall’esterno si potrebbe arrivare a dire che i Clash
sfruttarono anche una loro apparente contraddizione per sfondare in
America : erano contemporaneamente ultra-britannici ed anti-britannici
allo stesso tempo. Con questo tipo di approccio riuscirono a creare
una specie di ponte sull’Atlantico, mantenendo da una parte, ed
in modo netto, la loro identità di ragazzi della “working
class” inglese e dall’altra assorbendo e integrando gradualmente
nella loro musica e nelle loro personalità il meglio della cultura
americana ed afro-americana di quel periodo (pensiamo al rap, al rapporto
con Ginsberg…). “All’inizio fu un po’ come dire
: ok, tenetevi tutti i vostri Stati Uniti, i vostri cliches circa il
rock americano, perché noi vogliamo cantare di cose che riguardano
i posti da cui veniamo” (Mark Perry da Uncut, 2003), poi a poco
a poco “lo scambio” cominciò a produrre i suoi effetti.
Una cosa però è certa : l’intelligenza, la sensibilità,
la compattezza e la mentalità aperta del gruppo fecero sì
che i Clash non si appiattirono mai sull’America (bastare leggere
i testi di “Charlie Don’t Surf” e “Washington
Bullets” per averne certezza), ma offrirono al pubblico americano
qualcosa di vero e nuovo proveniente dal vecchio continente. La già
citata “via americana” del Clash sound. Ad avvalorare il
fatto che il gruppo mantenne sempre una propria identità (anche
politica) va detto che durante il primo breve tour negli States i Clash
presero anche contatto con diverse organizzazioni ed attivisti politici
al fine di conoscere in modo più approfondito la realtà
della società americana. Un incontro a San Francisco fu molto
importante : quello con un reduce del Vietnam, Mo Armstrong, che introdusse
ai Clash il tema del movimento Sandinista e della situazione in Nicaragua,
ignorata dalla stampa mondiale. La dura critica alla politica imperialista
americana in Nicaragua la ritroveremo,in modo fragoroso, un paio di
anni dopo con il triplo “Sandinista!”. Questo fecero i Clash,
anche se il processo non fu semplice, ,ma pieno di insidie e tentazioni,di
quelle che solo l’America sa proporre con determinate modalità,
come la storia insegna. Nota di colore : i Clash in America furono anche
entusiasti turisti, e si spinsero, nel febbraio ’79, in una visita
mattutina a Washington alla Casa Bianca. I commenti che ne seguirono
furono sorprendentemente tecnici e rispettosi, leggete le parole di
Johnny Green : “Sembra una cazzo di linda toilette, non mi dite
che controllano tutto il mondo da qui !! “