"OUT ON THE STREET" di Mauro Zaccuri
Quando la musica sapeva parlare
IL TRENTENNALE DEI CLASH (1976 - 2006)

 
4 - RUDIE CAN’T FAIL, IL PUNKY REGGAE PARTY
I Clash e la musica - cultura giamaicana

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“Sappiamo che i neri giamaicani hanno cucito addosso le fondamenta della loro cultura. Ma i giovani ragazzi bianchi non hanno niente. E’ per questo che molti di loro vivono nell’ignoranza ed hanno solo adesso cominciato ad aprire gli occhi” (Mick Jones – 1976)

“Per me, i problemi denunciati dal reggae sono i problemi denunciati dal punk. Sono solo la versione nera e la versione bianca di questi fottuti problemi. I ragazzi bianchi stanno invocando un cambiamento, vogliono mollare questo sistema di governo. Lo stesso vale per i neri quando cantano “Chant Down Babylon”, è la stessa cosa. La nostra Babilonia è il vostro Sistema, la stessa fottuta cosa. Se lo colpite, noi lo colpiamo, e viceversa”. (Don Letts a Sniffin’ Glue, 1977)

“Rudie Can’t Fail : nessuno sa quello che sanno i rudeboys” (dal manifesto del film “Rude Boy”)

“Il reggae è la musica del popolo, è informativa”. (Bob Marley)

L’incontro fra i Clash e la cultura reggae fu praticamente inevitabile e fu un tassello fondamentale nell’identità della band. La maggioranza dei giovani caraibici (nati in Inghilterra da genitori giamaicani, la prima generazione di “Black British”, come da definizione di Don Letts) soffriva dello stesso senso di frustrazione ed alienazione dei coetanei bianchi. Ma loro, i neri giamaicani, avevano qualcosa in più rispetto gli elementi che caratterizzavano buona parte del primo punk inglese. Avevano coscienza, valori spirituali, forme di disciplina morale. I Clash in qualche modo si aggrapparono alla positività della “coscienza rasta”, trascinandola, insieme alla componente musicale, all’interno del loro modo di vedere il sociale. Provarono a “riscrivere” la fede dei rasta per i giovani bianchi, si “rivolsero” a Marcus Garvey (famoso predicatore giamaicano e fondatore nel 1914 di una importante organizzazione a difesa dei diritti dei neri, la Universal Negro Improvement Association) per trovare lo spirito giusto da trasmettere ai ragazzi che li seguivano, affinché potessero realizzare che, insieme, avrebbero avuto la possibilità di scegliere il proprio destino. Paul Simonon fu, come detto, colui che mise in circolo la musica reggae all’interno della band, seguito da Strummer e supportato dallo stesso Rhodes che era un appassionato del genere. “Molti bianchi dicono che il reggae è noioso, che il basso è sempre lo stesso. Ma quando sei in un club capisci perché il basso gira in quel modo. Il suono del basso diventa il suono dei tuoi passi.” Con questa efficace definizione Simonon introduce il ruolo fondamentale svolto dai club, e nel periodo punk da un club in particolare, nell’avvicinare i giovani bianchi al sound dei neri. E questo locale si chiamava Roxy Club, in Neal Street, Londra. Dal dicembre 1976 all’aprile 1977 Don Letts fu il dj di questo ex locale gay, riconvertito a punto di incontro fra differenti culture. In un periodo così breve si determinò lo speciale link fra punk e reggae, che vide da una parte alcune figure di spicco della “nuova scena bianca”, tipo Strummer, Simonon , Johnny Rotten , mentre dall’altra, a fare da trade union, il giamaicano Don Letts che veniva dall’esperienza di dj nel negozio Acme Attractions (1975), uno dei luoghi più “cool” di Londra, passaggio obbligato per le diverse tribù metropolitane e visitato più volte anche da Bob Marley durante il periodo trascorso nella capitale inglese (nella quale registrò nel luglio ’77 il brano Punky Reggae Party presso gli Island Studios). La musica riuscì (per ora in una dimensione piuttosto elitaria, ma con il Rock Against Racism il successo fu clamoroso) dove la politica istituzionale continuava a fallire : il Roxy Club divenne il locale nel quale si potevano ascoltare contemporaneamente i primi 45 giri punk (lo stesso Andy Czezowski, il proprietario del locale, era manager della punk band Chelsea) ed il roots reggae , dove si potevano vedere ballare contemporaneamente giovani punk e giovani rasta , rappresentanti di due sottoculture che non cercavano di diventare forzatamente simili, ma provavano a conoscersi e divertirsi insieme nel rispetto delle proprie differenze. Un comportamento realistico e lungimirante, che non cadde nel tranello di una castrante “emulazione culturale” senza radici e pertanto senza futuro.
Il reggae di artisti come Culture, Big Youth, Toots and The Maytals, era poi una specie di reportage musicale, dove molti dei temi trattati nei testi riguardavano cose significative, con forti valenze sociali e spirituali, che segnavano la vita di tutti i giorni. I Sound System come Jah Shaka, Moa Ambassa (citato in “Let’s Go Crazy” dei Clash), Coxsonne, “facevano informazione” attraverso una capacità comunicativa che solo la musica possiede, formavano coscienze mediante il loro lavoro basato su concetti cardine quali : cultura, spiritualità, politica. Un approccio, come si può intuire, al quale i Clash non furono affatto estranei. I giovani proletari bianchi avevano maledettamente bisogno di questo senso di identità, di questa coscienza, per avvicinarsi allo spirito di quella “la rivolta bianca” evocata in “White Riot” e fatta propria, per qualche ora, con la partecipazione agli scontri al Nottingh Hill Carnival del 30 agosto 1976. Joe Strummer e Paul Simonon furono assidui frequentatori di concerti di reggae music : “I neri ed i bianchi delle classi più povere sono sulla stessa barca. Noi dei Clash andiamo ai più duri concerti di musicisti giamaicani dove siamo i soli bianchi lì dentro” (Joe Strummer). La contaminazione spaziava poi anche nel campo dell’immagine, se si pensa alla copertina del primo singolo dei Clash (White Riot – 1977) che sembrava riprendere la cover di “State Of Emergency”, l’album di Joe Gibbs and The Professionals, con i componenti raffigurati con le mani contro il muro, perquisiti dalla polizia. Anche alcuni degli slogans scritti su giacconi di pelle, camicie e magliette dei quattro cavalieri, tipo “Heavy Manners” e “Heavy Duty Discipline” erano ispirati da lavori di musicisti reggae del calibro di Prince Far I (uno dei loro favoriti) con il suo “Under Heavy Manners”, e l’immagine della copertina di “Black Market Clash” raffigurava un solitario rasta (era Don Letts, in zona Notting Hill) di fronte ad un massiccio schieramento di poliziotti. Le connessioni fra Clash e reggae si manifestarono da subito ovviamente anche e soprattutto nella musica, ed il sound giamaicano venne spesso utilizzato come “musica d’ambiente” per introdurre i loro infuocati live act. La cover di “Police and Thieves” (autori Lee Perry/Junior Marvin) venne realizzata nel 1977, “sulla scia di alcune band anni ’60 che erano solite fare cover di classici contemporanei di R&B, noi “coverizzammo” gli ultimi dischi provenienti dalla Giamaica” (Mick Jones, alla Bbc nel 1996). In effetti il brano originale era stato pubblicato qualche mese prima dai due autori e commentava, attraverso bibliche allusioni a conflitti generazionali, i violenti eventi politici che avevano afflitto la Giamaica nel 1976. Gli scontri pre-elettorali nell’isola caraibica riguardavano il governo socialista di Michael Manley (appoggiato apertamente da Bob Marley) e l’opposizione conservatrice del JPL. Nel dicembre 1976 Bob Marley riuscì a sopravvivere ad un attentato e decise di lasciare la Giamaica per raggiungere Londra, dove registrò, agli inizi del 1977, uno dei suoi migliori album : “Exodus”. Successivamente i Clash riproposero altre cover all’interno del loro repertorio come “Pressure Drop” di Toots and The Maytals, “Armagideon Time” di Williams/Mittoo ed utilizzarono numerosi definizioni e riferimenti presi in prestito dalla musica e dalla cultura giamaicana sia nei testi che nei titoli delle loro canzoni. Qualche esempio : in “Clash City Rockers” è citato Prince Far I, allusioni a Dr.Alimantado (toaster giamaicano che incise nel 1977 un singolo dal titolo “Born for a purpose”, cioè nato con uno scopo) si trovano in “Rudie Can’t Fail”, in “Jimmy Jazz” viene citato il brano Satta Massaganna degli Abyssinians, They Harder They Came di Jimmy Cliff è menzionata in “Safe European Home” ed in “Guns Of Brixton”, Stagger Lee (allegoria del fuorilegge nella cultura afroamericana) si trova nel primo verso di “Wrong ‘Em Boyo”, in “The Equaliser”, si parla di Zion, luogo d’origine per i rasta, un brano di Toots and The Maytals, “54-46 That’s My Number”, viene richiamato nel testo di “Jail Guitar Doors”, e così via.
Il film “Rude Boy”, girato dai registi Hazan e Mingay fra il ’77 ed il ’79 e distribuito nel 1980, vide i Clash e la loro musica protagonisti, sullo sfondo delle tensioni politiche e razziali dell’Inghilterra di quegli anni.
Nel film riemerse la figura del “rude boy” , di giamaicana memoria, alla quale i Clash dedicarono in modo passionale la già citata “Rudie Can’t Fail”. La cultura “rude” aveva origini giamaicane (fine anni ’50) e riguardava gente da bassifondi : piccoli malavitosi dal coltello facile, disoccupati arrabbiati, giovani ribelli concentrati nei quartieri poveri della parte ovest di Kingston e dediti alla frequentazione delle dance hall dell’isola caraibica. I rude boys (capelli corti, abiti neri, cravatte strette) sceglievano la vita da strada ed il crimine piuttosto di un lavoro umile, sottopagato, al limite della sopravvivenza. Il loro modo di vivere influenzò diversi sound system e produttori dell’epoca (Alton Ellis, Prince Buster, Dillinger e Big Youth), fino a ricevere il tributo di band come gli Wailers con la loro “Rule Them Rudie” (1965) ed anche da Dandy Livingstone con la celebre “Rudy a message to you” (1967), ripresa con successo dagli Specials nel 1979. I flussi migratori dalla Giamaica verso l’Inghilterra si fecero intensi nei primi anni ’60 e si concentrarono nei quartieri operai . A Londra, nelle aree come Paddington, Brixton, Sheperd’s Bush, Notting Hill (guarda caso le zone dei Clash) ci fu una grande concentrazione di famiglie e giovani caraibici. Di fronte ad una vita precaria, piena di discriminazione e pregiudizi, gli immigrati si rifugiarono nella cultura e nella musica del paese natio. Già nel ’68 a Londra erano in attività diversi sound systems con relativa diffusione di ska (gli inglesi all’inizio lo chiamavano “jamaican blues”), e rocksteady (più lento, forse ancor più intrigante dello ska). Il culto del rude boy cominciava a penetrare nella cultura della giovane classe lavoratrice inglese, e strada facendo produsse una versione inglese del “ribelle caraibico” : quello dello skinhead, con testa rasata, bretelle, camicia Ben Sherman, pantaloni sopra le caviglie per dare risalto alle celeberrime Doctor Martin. Lo stesso Strummer propose fino all’ultimo nei suoi concerti una classica canzone del reggae più “resistente”, quella “They Harder They Came” che rese popolare Jimmy Cliff nel 1970 e nella quale la filosofia “rude boy” era al centro dell’attenzione : “ed io continuo a lottare per le cose che voglio/sapendo che quanto sarai morto non potrai più farlo/ ma preferisco essere un uomo libero nella mia tomba/ piuttosto di vivere come un fantoccio o uno schiavo”.

Detto del legame affettivo fra i Clash e la figura del Rude Boy, dal punto di vista “professionale” il primo vero incontro fra la band e musicisti giamaicani è riconducibile alla collaborazione (piuttosto rapida a dire il vero) con Lee “Scratch” Perry nella seconda metà del 1977, quando il genialoide conduttore dei Black Ark Studio co-produsse (insieme a Mickey Foote) il singolo “Complete Control”. Con il singolo “White Man in Hammersmith Palais” registrato nel febbraio 1978, i Clash raggiunsero probabilmente l’apice delle loro composizioni in “Clash reggae style”. Eccellente sia nel sound che nelle liriche, “White Man” è classificabile fra i migliori brani mai scritti da Joe Strummer e Mick Jones, un pezzo reggae composto , e non solo suonato, da musicisti bianchi, i primi musicisti bianchi ad avere l’immagine dei loro volti dipinta nel muro dei già citati Black Ark Studio in Giamaica. La genesi di “White Man” risale alla sera del 5 giugno 1977 quando Joe Strummer e Roadent si recarono all’Hammersmith Palais in Shepherd’s Bush per partecipare ad un vibrante gig di “toasters” giamaicani : Dillinger, Leroy Smart e Delroy Wilson. Si resero conto in fretta che non stavano assistendo ad un concerto qualsiasi, il pubblico era composto interamente da rasta che volevano fare la “loro festa” senza intromissioni esterne, ed in effetti l’incontro fra Strummer ed i “rudeboys” presenti nel locale non fu dei più tranquilli. Insomma non tutte le situazioni di contatto, anche se animate da sentimenti propositivi, potevano funzionare. Non era sempre come al Roxy, con dj Don Letts al “controllo”. Questa sensazione di forte disagio in una serata interamente posseduta dalla gente di colore influenzerà il testo, che evidenzierà la figura del ragazzo bianco perso in un contesto che non gli appartiene e lo fa sentire straniero , che rivendica l’assoluta necessità di una unione fra giovani ribelli bianchi e neri, ma che infine riflette amaramente sul fatto che i punk-rockers stavano già “trasformando la ribellione in soldi”. I Clash suoneranno effettivamente all’Hammersmith Palais a metà giugno del 1980, durante il “The 16 Tons Tour”. In quell’occasione Strummer domandò al pubblico : “E’ questo il Palais ?”, ed il pubblico rispose affermativamente con un boato. “Ok, adesso è tutto a posto”, disse Joe, adesso erano lì tutti per lui e per i Clash. Le cose, rispetto a tre anni prima, erano decisamente cambiate.

Aldilà quindi di qualche momento di scoramento legato più all’evoluzione/involuzione della prima scena punk, la grande passione dei Clash per il reggae trascinò diversi gruppi di quel periodo lungo la loro scia. E’ certamente il caso delle Slits, band al femminile (in cui militava la batterista Palmolive, in quel periodo compagna di Strummer) che supportò i Clash durante il White Riot Tour del 1977, e che pubblicò il primo album, “Cut” (1978) dalle nervose atmosfere dub, sotto l’ala protettrice del famoso produttore reggae Dennis Bovell. Anche i Ruts di Malcolm Owen (esordio discografico nel 1978, seconda generazione di punk-band inglesi) si ispirarono ai Clash sia per l’impegno sociale (furono decisamente antirazzisti) sia per la passione nei confronti della reggae-music, arrivando a stringere forti legami con la reggae band inglese Misty in Roots (da Southall, West London), la quale li aiutò tramite la propria etichetta Unite Label a pubblicare il primo singolo, “In a Rut” (20.000 copie vendute nonostante la scarsa “visibilità”). Successivamente entrarono nelle grazie dello storico conduttore radiofonico John Peel, il quale nelle sue famose sessioni alla Bbc contribuì non poco a diffondere la loro musica. Con il secondo singolo “Babylon’s Burning” (1979, storico pezzo,un classico del punk made in Uk) ottennero il loro miglior successo commerciale entrando nelle top ten, e con il successivo “Jah War” dichiararono il loro completo coinvolgimento nella musica reggae. Senza dubbio una signora band i Ruts, capace di suonare punk abrasivo (“H-Eyes”) e reggae in modo eccellente (vedi ad esempio “Blackmans Pinch”), ma anche parecchio sfortunata vista la prematura scomparsa del leader Malcom Owen nel 1980. Il 1978 fu anche l’anno di “First Issue”, il disco di debutto dei Public Image Limited, la band costituita da John Lydon dopo l’abbandono dei Sex Pistols. Per loro un dub oscuro, innovativo ed anticonformista, segnato dal basso di Jah Wobble. L’anno successivo furono gli Stiff Little Fingers da Belfast guidati da Jake Burns a debuttare con un grande album, “Inflammable Material” (1979), che si muoveva in un ambito stilistico molto vicino a quello dei primi Clash. Gli SLF realizzarono anthem punk ad alto potenziale politico come nel caso, fra gli altri, di “Alternative Ulster”, un inno all’autodeterminazione nord-irlandese : “quello di cui abbiamo bisogno è / un Ulster alternativo/afferralo e cambialo, è tuo/prenditi un Ulster alternativo/ignora i calibri delle loro armi e le loro leggi/prenditi un Ulster alternativo/diventa una forza anti-sicurezza/cambia l’Ulster in cui sei nato/cambia la terra in cui sei nato”, ed utilizzarono anche il reggae per comporre brani come “Johnny Was”, “Safe As Houses” e “Roots, Radics, Rockers & Reggae”. Ma se dobbiamo trovare un gruppo che proseguì e sviluppò il “lavoro” fatto dai Clash per entrare strutturalmente in contatto con la musica e la cultura delle indie occidentali, dobbiamo necessariamente parlare degli Specials. Per loro fu la musica ska a “dare un senso” ad una luminosa carriera che si sviluppò e crebbe nel segno dell’antirazzismo e della concreta solidarietà fra bianchi e neri. Gli Specials e la correlata etichetta 2 Tone con base a Coventry (esordio e successo discografico nel luglio ‘79 con il 45 giri degli Specials “Gangsters”) divennero subito il faro dello Ska Revival inglese, ricevendo gli immediati consensi di Joe Strummer che li volle, a fare da supporto, nel tour “The Clash On Parole” (giugno-luglio 1978). Jerry Dammers costituì la 2 Tone attribuendogli una forte identità, fatta di impegno e stile, che prevedeva l’integrazione della musica ska giamaicana con l’attitudine punk, la composizione multirazziale di quasi tutte le band (bianchi e neri nello stesso gruppo come filo conduttore di tutto il progetto), una precisa immagine visiva dell’etichetta attraverso l’utilizzo dei colori bianco/nero per le copertine dei primi dischi, ed un abbigliamento stile rude boy di molti esponenti dei gruppi a lei correlati. Incisero per la 2 Tone i “padroni di casa” Specials, i Selecter, per un solo singolo i Madness e The Beat, i Bodysnatchers ed anche, nel 1980, Elvis Costello con il singolo “I Can’t Stand Up For Falling Down”. L’impegno antirazzista dei ragazzi con i “porkpie hats” si concretizzò in tutta una serie di iniziative a decorrere dal ’79 (gli Specials furono in prima fila nel Rock Against Racism), supportato dal crescente interesse dei ragazzi inglesi nei confronti di un fenomeno, quello dello ska-revival, che offriva loro musica vibrante e ballabile all’interno di uno scenario naturalmente multiculturale. Se i neo nazisti del National Front esaurirono la loro pericolosità nel giro di qualche anno, più di un merito va attribuito al “giro” 2 Tone ed alla sua capacità di coinvolgere l’audience giovanile nel rigetto delle tesi e dei comportamenti dell’estrema destra.

“Conscious Reggae”, antirazzismo, antifascismo, rock e politica. Ci fu un evento che risulterà simbolicamente molto importante per i Clash e per i “Black British” : il concerto in Victoria Park del 30 aprile 1978 organizzato dall’Anti-Nazi League, che vide Joe Strummer e soci esibirsi dal vivo insieme a Steel Pulse, X-Ray Spex, il “poeta punk” Patrick Fitzgerald e la Tom Robinson Band.
Per inquadrare meglio la situazione è opportuno dedicare un po’ di spazio alla genesi dell’Anti-Nazi League. L’ANL nacque nel maggio del 1977 come reazione all’avanzata dei fascisti del National Front che aveva preso 119.000 voti nelle elezioni locali londinesi. L’unica forza politica che in quel periodo si opponeva davvero alle violenze fasciste nell’ East End londinese era il Socialist Workers Party, sistematicamente attaccato nelle sue sedi e durante le riunioni dei propri militanti. Il National Front voleva il controllo delle strade, voleva intimidire gli immigrati intensificando le aggressioni ed ogni forma di razzismo xenofobo. Tempi duri, estremamente violenti, l’escalation della destra estrema era preoccupante. Nel periodo fra il 1976 ed il 1981 furono 31 le persone di colore assassinate in Gran Bretagna per mano fascista. Bisognava quindi tornare all’iniziativa rapidamente, anche fisicamente, far vedere che l’opposizione a questo stato di cose era viva e voleva confrontarsi. Così alcuni membri del Socialist Workers Party, dopo aver dovuto digerire anche le parole di apprezzamento di Eric Clapton per un deputato conservatore noto per le sue posizioni razziste, decisero di costituire l’Anti-Nazi League, che diverrà la più grande organizzazione anti-fascista in Inghilterra. La forza dell’organizzazione si espresse con gli eventi di Lewisham, un quartiere a sud di Londra, densamente popolato da asiatici ed immigrati caraibici. Il 13 agosto 1977 il National Front organizzò una marcia provocatoria proprio verso il quartiere di Lewisham che voleva intimidire i residenti e mostrare i muscoli dopo che la maggior parte dell’opinione pubblica inglese era rimasta passiva di fronte all’escalation delle loro azioni violente. Circa 10.000 antifascisti (bianchi, neri, studenti, lavoratori) risposero all’appello dell’ANL e si opposero fisicamente al passaggio del corteo, e, dopo diverse ore di battaglia con fascisti e polizia, riuscirono a bloccare e disperdere la marcia. Sull’entusiasmo di quella netta vittoria l’ANL (sempre con il Socialist Workers Party a tirare le fila) mise in piedi altre iniziative come la campagna “Right To Work” ed il “Rock Against Racism”. Il manifesto programmatico del Rock Against Racism era perentorio : “Vogliamo musica ribelle/musica della strada/musica che possa abbattere la paura fra la gente/musica di adesso/musica che conosca chi sia il vero nemico/Rock contro il razzismo/Ama la musica odia il razzismo”. Nel corso della sua storia il R.A.R. ottenne l’appoggio di altre punk band come Buzzcocks, Uk Subs e gli Sham 69 guidati Jimmy Pursey, che furono gli headliner del secondo grande raduno del movimento, tenutosi il 24 settembre 1978 a Brockwell Park davanti a 100.000 persone.
Ma il primo appuntamento (e che appuntamento) del R.A.R. fu proprio l’organizzazione del concerto al Victoria Park, nel quale i Clash, come racconta l’ex roadies Johnny Green nel suo “A Riot Of Our Home”, furono fortemente richiesti dall’organizzatore John Dennis. I Clash furono subito d’accordo a partecipare mentre Bernie Rhodes fu piuttosto freddo sull’argomento. “Sono sicuri di sapere cosa stanno facendo? Vogliono davvero avere a che fare con quel modello di studenti?”. La replica di Strummer non si fece attendere : “La gente deve cominciare a camminare prima di correre. Se la gente scende dal proprio letto per un giorno abbiamo ottenuto qualcosa. Se la gente pensa alla politica anche solo per rendersi conto che odia i fascisti, questo è già qualcosa”. I Clash fecero il loro concerto davanti ad una massa di 80.000 persone e la cosa lasciò il segno, provocando grandi emozioni nella band che presentò dal vivo anche nuovi pezzi : “Tommy Gun, “The Last Gang in Town”, “English Civil War”, “Guns Of The Roof”, suonando l’ormai classica “White Riot” insieme a Jimmy Pursey. Abituati ad un pubblico di 1.000 persone o giù di lì, scesero dal palco eccitati e soddisfatti di aver partecipato ad un evento significativo da ogni punto di vista. Probabilmente si resero conto di aver cominciato un cammino diverso, inimmaginabile solo qualche mese prima, mentre in Inghilterra era già percepibile il tramonto del punk del biennio storico.
Al concerto anti-razzista di Victoria Park suonarono,fra gli altri, anche gli Steel Pulse, la migliore reggae band uscita dall’Inghilterra. Il loro leader, David Hinds dichiarò : “Noi non possiamo ignorare la politica, perché ogni vita ed ogni anima nata su questa terra è portatrice di politica per qualcuno, allo stesso livello”. Formati alla Handsworth School di Birmingham, gli Steel Pulse pubblicarono nel 1978 il loro primo album, “Handsworth Revolution”, una pietra miliare del reggae inglese, preceduto da un singolo, “Ku Klux Klan”, dal titolo emblematico. Orgoglio, identità, voglia di alzare la testa e di contare sono elementi che troviamo nel loro sound come dimostra il testo di “Handsworth Revolution” : “La gente di Handsworth sa che una mano lava l’altra, così dicono/Quindi unite le mani, tracciate la strada per i nostri figli e per il loro figli/ Accertandovi che ottengano la giusta parte di uguaglianza/la giustizia non è uguale con tutti/la giustizia non è uguale con tutta l’umanità/ Incoronazione, incoronazione nel posto del Demonio/ Handsworth significa noi, la gente nera/Stiamo parlando adesso, lo stiamo facendo nel linguaggio di Jah/Veniamo da molto lontano/ Per inviare questo messaggio/Che è stato nascosto, proibito, celato, non rivelato/Che è stato preso per uscire fuori, all’aperto/ Babilonia sta crollando/Babilonia sta crollando/Non ha senso costruire nella sabbia/Handsworth si leverà in piedi costantemente, come il rock di Jah/Una volta eravamo mendicanti, ora vogliamo contare/Nessuna intenzione di essere perdenti/Ci batteremo con ambizione/E se vogliono prendere le munizioni/Noi insorgeremo nella rivoluzione di Handsworth”. Roba bella tosta, non c’è che dire, in linea perfetta con i tempi, con quel diffuso sentimento di riscatto insito fra la gente di colore nell’Inghilterra fine anni ’70. Non solo e non più il richiamo a Jah ed alla terra natia ma voglia di lottare in quel momento, nel paese nel quale stavano vivendo.
Per i Clash, il rapporto artistico più significativo con artisti giamaicani è certamente quello intrattenuto con il deejay e produttore Mikey Dread, a partire dal 1980. La popolarità di Dread era molto cresciuta dopo il successo della sua trasmissione radiofonica in Giamaica “Dread at the Controls”, nella quale poteva sfoggiare tutta la sua enorme cultura legata alla musica reggae. Come detto non era solo un dj ma anche musicista ed abile produttore, la cui tecnica innovativa spinse i Clash a contattarlo per la produzione di “Bankrobber” . “Non avevo mai sentito prima il nome “The Clash”. Sono andato in Inghilterra senza sapere esattamente cosa mi aspettasse. Quando arrivai in studio (Pluto Studio di Manchester, febbraio 1980 ndr) e loro cominciarono a suonare questo pezzo, ed io mi chiesi, “cosa fanno ?”, non avevo mai sentito nessuno cantare così velocemente! Gli dissi di provare a suonare il pezzo in modo più lento, più reggae. Diedi loro l’idea per la linea di basso e Paul Simonon la eseguì facilmente perché ascoltava già un sacco di reggae. Dissi anche a Joe Strummer di cantare più melodicamente e meno velocemente. Li guidavo e loro si misero a lavorare davvero bene”. Cominciò così a nascere una esperienza davvero importante per tutte le parti in campo. Ancora Dread : “Culturali, razziali, tutte le barriere furono abbattute. I Clash mi trattarono come un amico, un fratello, un uomo bianco, con uguaglianza….. questi ragazzi furono come miei vecchi amici, furono i miei tutori quando ero lontano dalla Giamaica”. E ancora “Una cosa posso dire sui Clash. Loro erano davvero antirazzisti. Molte volte durante il loro tour sono stato in posti dove alcuni skinheads e punk volevano farmi il culo, perché ero di colore, ed i Clash si preoccupavano sempre che qualcuno di loro rimanesse sempre con me, non mi lasciavano mai solo in quelle situazioni. Loro avevano ai piedi le Doctor Martin e ne comprarono un paio anche a me, sapevano che eravamo sullo stesso sentiero di guerra”. A dire il vero le esperienze dei Clash in Giamaica non furono altrettanto “piacevoli”. La prima volta toccò a Mick Jones e Joe Strummer nel dicembre 1977 e finì che i due quasi scapparono da Kingston a causa del clima estremamente violento della capitale giamaicana : “andammo al molo e penso che ci salvammo solo perché ci scambiarono per marinai” (Joe Strummer). Al ritorno in Inghilterra scrissero “Safe European Home” (dal loro secondo disco, Give’Em Enough Rope” – Novembre 1978), il cui testo descrive le difficoltà psicologiche e fisiche incontrate in un ambiente quasi ostile. La seconda volta invece ci andarono tutti , invitati da Mikey Dread,al Channel One Studios a Kingston, per registrare “Junco Partner”. Anche qui fu una fuga con il cuore in gola, raccontata nel libro di Keith Topping, “Complete Clash”. Fu Mickey Dread a sventare il pericolo : “Veloci, dobbiamo andare. Stanno arrivando gli spacciatori e vogliono fare una strage”. Gli ultimi clienti bianchi degli Studios erano stati i Rolling Stone che probabilmente distribuirono parecchi soldi ai boss locali per evitare violenze e fastidi vari. I Clash vennero quindi visti come polli da spennare, ma finanziariamente il paragone non poteva reggere. Due esperienze, per usare un eufemismo, non esaltanti, su questo si deve convenire.
Dopo la produzione di Bankrobber, che fu fra le altre cose uno dei loro maggiori successi commerciali, i Clash fecero lavorare, e molto, Mikey Dread in “Sandinista!” attraverso la sua collaborazione in diversi brani : “Junco Partner”, “Living In Fame”, “One More Time” , “One More Dub”, “If Music Could Talk”, “Sheperd’s Delight”. Inoltre il dj giamaicano partecipò e salì spesso sul palco nel corso del “The 16 Tons Tour”. Un ultimo episodio può cogliere ,a mio avviso meglio di altri, lo “spirito solidaristico” che animava i Clash. Lo racconta lo stesso Dread : “Non credevo di andare in tour con loro, ma loro mi chiesero di seguirli, perché volevano introdurmi al loro pubblico. Ma una delle prime esperienze, a Los Angeles, non la dimenticherò mai. Lì i punk erano davvero matti, l’atmosfera tesa, era come se l’inferno si stesse avvicinando. Dissi che non volevo suonare quella sera, perché avevo la netta sensazione che la gente non volesse vedere nessun uomo di colore in giro, mi bastavano gli sguardi. Joe Strummer mi rincuorò : Vai sul palco e affrontali, non lasciargli dire quello che dovresti fare. Salii sul palco e con aria seria dissi : pensavo di essere venuto negli Stati Uniti per trovare gente intelligente, gente dalla mentalità aperta, gente cosmopolita, gente senza pregiudizi razzisti, gente che vuole un mondo in cui si possa vivere uniti. Beh, credetemi, il pubblico cominciò a diventare più tranquillo. Quindi continuai : so che siete venuti a vedere i Clash, ma io voglio cominciare con un po’ di reggae music, il reggae delle radici! Siete pronti ? Risposero il classico yeah ! Attaccai il primo pezzo e le prime file si mossero al ritmo. Avevo rotto il ghiaccio”.
Il legame fra i Clash e Mikey Dread fu davvero intenso, anche se a dire il vero negli anni successivi nacque qualche problema circa i diritti sulle canzoni composte insieme. Ancora oggi Dread propone dal vivo “Bankrobber”, dedicandola alla memoria di Joe Strummer.