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- RUDIE CAN’T FAIL, IL PUNKY REGGAE PARTY
I
Clash e la musica - cultura giamaicana |
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“Sappiamo
che i neri giamaicani hanno cucito addosso le fondamenta della loro
cultura. Ma i giovani ragazzi bianchi non hanno niente. E’ per
questo che molti di loro vivono nell’ignoranza ed hanno solo adesso
cominciato ad aprire gli occhi” (Mick Jones – 1976)
“Per
me, i problemi denunciati dal reggae sono i problemi denunciati dal
punk. Sono solo la versione nera e la versione bianca di questi fottuti
problemi. I ragazzi bianchi stanno invocando un cambiamento, vogliono
mollare questo sistema di governo. Lo stesso vale per i neri quando
cantano “Chant Down Babylon”, è la stessa cosa. La
nostra Babilonia è il vostro Sistema, la stessa fottuta cosa.
Se lo colpite, noi lo colpiamo, e viceversa”. (Don Letts a Sniffin’
Glue, 1977)
“Rudie
Can’t Fail : nessuno sa quello che sanno i rudeboys” (dal
manifesto del film “Rude Boy”)
“Il
reggae è la musica del popolo, è informativa”. (Bob
Marley)
L’incontro
fra i Clash e la cultura reggae fu praticamente inevitabile e fu un
tassello fondamentale nell’identità della band. La maggioranza
dei giovani caraibici (nati in Inghilterra da genitori giamaicani, la
prima generazione di “Black British”, come da definizione
di Don Letts) soffriva dello stesso senso di frustrazione ed alienazione
dei coetanei bianchi. Ma loro, i neri giamaicani, avevano qualcosa in
più rispetto gli elementi che caratterizzavano buona parte del
primo punk inglese. Avevano coscienza, valori spirituali, forme di disciplina
morale. I Clash in qualche modo si aggrapparono alla positività
della “coscienza rasta”, trascinandola, insieme alla componente
musicale, all’interno del loro modo di vedere il sociale. Provarono
a “riscrivere” la fede dei rasta per i giovani bianchi,
si “rivolsero” a Marcus Garvey (famoso predicatore giamaicano
e fondatore nel 1914 di una importante organizzazione a difesa dei diritti
dei neri, la Universal Negro Improvement Association) per trovare lo
spirito giusto da trasmettere ai ragazzi che li seguivano, affinché
potessero realizzare che, insieme, avrebbero avuto la possibilità
di scegliere il proprio destino. Paul Simonon fu, come detto, colui
che mise in circolo la musica reggae all’interno della band, seguito
da Strummer e supportato dallo stesso Rhodes che era un appassionato
del genere. “Molti bianchi dicono che il reggae è noioso,
che il basso è sempre lo stesso. Ma quando sei in un club capisci
perché il basso gira in quel modo. Il suono del basso diventa
il suono dei tuoi passi.” Con questa efficace definizione Simonon
introduce il ruolo fondamentale svolto dai club, e nel periodo punk
da un club in particolare, nell’avvicinare i giovani bianchi al
sound dei neri. E questo locale si chiamava Roxy Club, in Neal Street,
Londra. Dal dicembre 1976 all’aprile 1977 Don Letts fu il dj di
questo ex locale gay, riconvertito a punto di incontro fra differenti
culture. In un periodo così breve si determinò lo speciale
link fra punk e reggae, che vide da una parte alcune figure di spicco
della “nuova scena bianca”, tipo Strummer, Simonon , Johnny
Rotten , mentre dall’altra, a fare da trade union, il giamaicano
Don Letts che veniva dall’esperienza di dj nel negozio Acme Attractions
(1975), uno dei luoghi più “cool” di Londra, passaggio
obbligato per le diverse tribù metropolitane e visitato più
volte anche da Bob Marley durante il periodo trascorso nella capitale
inglese (nella quale registrò nel luglio ’77 il brano Punky
Reggae Party presso gli Island Studios). La musica riuscì (per
ora in una dimensione piuttosto elitaria, ma con il Rock Against Racism
il successo fu clamoroso) dove la politica istituzionale continuava
a fallire : il Roxy Club divenne il locale nel quale si potevano ascoltare
contemporaneamente i primi 45 giri punk (lo stesso Andy Czezowski, il
proprietario del locale, era manager della punk band Chelsea) ed il
roots reggae , dove si potevano vedere ballare contemporaneamente giovani
punk e giovani rasta , rappresentanti di due sottoculture che non cercavano
di diventare forzatamente simili, ma provavano a conoscersi e divertirsi
insieme nel rispetto delle proprie differenze. Un comportamento realistico
e lungimirante, che non cadde nel tranello di una castrante “emulazione
culturale” senza radici e pertanto senza futuro.
Il reggae di artisti come Culture, Big Youth, Toots and The Maytals,
era poi una specie di reportage musicale, dove molti dei temi trattati
nei testi riguardavano cose significative, con forti valenze sociali
e spirituali, che segnavano la vita di tutti i giorni. I Sound System
come Jah Shaka, Moa Ambassa (citato in “Let’s Go Crazy”
dei Clash), Coxsonne, “facevano informazione” attraverso
una capacità comunicativa che solo la musica possiede, formavano
coscienze mediante il loro lavoro basato su concetti cardine quali :
cultura, spiritualità, politica. Un approccio, come si può
intuire, al quale i Clash non furono affatto estranei. I giovani proletari
bianchi avevano maledettamente bisogno di questo senso di identità,
di questa coscienza, per avvicinarsi allo spirito di quella “la
rivolta bianca” evocata in “White Riot” e fatta propria,
per qualche ora, con la partecipazione agli scontri al Nottingh Hill
Carnival del 30 agosto 1976. Joe Strummer e Paul Simonon furono assidui
frequentatori di concerti di reggae music : “I neri ed i bianchi
delle classi più povere sono sulla stessa barca. Noi dei Clash
andiamo ai più duri concerti di musicisti giamaicani dove siamo
i soli bianchi lì dentro” (Joe Strummer). La contaminazione
spaziava poi anche nel campo dell’immagine, se si pensa alla copertina
del primo singolo dei Clash (White Riot – 1977) che sembrava riprendere
la cover di “State Of Emergency”, l’album di Joe Gibbs
and The Professionals, con i componenti raffigurati con le mani contro
il muro, perquisiti dalla polizia. Anche alcuni degli slogans scritti
su giacconi di pelle, camicie e magliette dei quattro cavalieri, tipo
“Heavy Manners” e “Heavy Duty Discipline” erano
ispirati da lavori di musicisti reggae del calibro di Prince Far I (uno
dei loro favoriti) con il suo “Under Heavy Manners”, e l’immagine
della copertina di “Black Market Clash” raffigurava un solitario
rasta (era Don Letts, in zona Notting Hill) di fronte ad un massiccio
schieramento di poliziotti. Le connessioni fra Clash e reggae si manifestarono
da subito ovviamente anche e soprattutto nella musica, ed il sound giamaicano
venne spesso utilizzato come “musica d’ambiente” per
introdurre i loro infuocati live act. La cover di “Police and
Thieves” (autori Lee Perry/Junior Marvin) venne realizzata nel
1977, “sulla scia di alcune band anni ’60 che erano solite
fare cover di classici contemporanei di R&B, noi “coverizzammo”
gli ultimi dischi provenienti dalla Giamaica” (Mick Jones, alla
Bbc nel 1996). In effetti il brano originale era stato pubblicato qualche
mese prima dai due autori e commentava, attraverso bibliche allusioni
a conflitti generazionali, i violenti eventi politici che avevano afflitto
la Giamaica nel 1976. Gli scontri pre-elettorali nell’isola caraibica
riguardavano il governo socialista di Michael Manley (appoggiato apertamente
da Bob Marley) e l’opposizione conservatrice del JPL. Nel dicembre
1976 Bob Marley riuscì a sopravvivere ad un attentato e decise
di lasciare la Giamaica per raggiungere Londra, dove registrò,
agli inizi del 1977, uno dei suoi migliori album : “Exodus”.
Successivamente i Clash riproposero altre cover all’interno del
loro repertorio come “Pressure Drop” di Toots and The Maytals,
“Armagideon Time” di Williams/Mittoo ed utilizzarono numerosi
definizioni e riferimenti presi in prestito dalla musica e dalla cultura
giamaicana sia nei testi che nei titoli delle loro canzoni. Qualche
esempio : in “Clash City Rockers” è citato Prince
Far I, allusioni a Dr.Alimantado (toaster giamaicano che incise nel
1977 un singolo dal titolo “Born for a purpose”, cioè
nato con uno scopo) si trovano in “Rudie Can’t Fail”,
in “Jimmy Jazz” viene citato il brano Satta Massaganna degli
Abyssinians, They Harder They Came di Jimmy Cliff è menzionata
in “Safe European Home” ed in “Guns Of Brixton”,
Stagger Lee (allegoria del fuorilegge nella cultura afroamericana) si
trova nel primo verso di “Wrong ‘Em Boyo”, in “The
Equaliser”, si parla di Zion, luogo d’origine per i rasta,
un brano di Toots and The Maytals, “54-46 That’s My Number”,
viene richiamato nel testo di “Jail Guitar Doors”, e così
via.
Il film “Rude Boy”, girato dai registi Hazan e Mingay fra
il ’77 ed il ’79 e distribuito nel 1980, vide i Clash e
la loro musica protagonisti, sullo sfondo delle tensioni politiche e
razziali dell’Inghilterra di quegli anni.
Nel film riemerse la figura del “rude boy” , di giamaicana
memoria, alla quale i Clash dedicarono in modo passionale la già
citata “Rudie Can’t Fail”. La cultura “rude”
aveva origini giamaicane (fine anni ’50) e riguardava gente da
bassifondi : piccoli malavitosi dal coltello facile, disoccupati arrabbiati,
giovani ribelli concentrati nei quartieri poveri della parte ovest di
Kingston e dediti alla frequentazione delle dance hall dell’isola
caraibica. I rude boys (capelli corti, abiti neri, cravatte strette)
sceglievano la vita da strada ed il crimine piuttosto di un lavoro umile,
sottopagato, al limite della sopravvivenza. Il loro modo di vivere influenzò
diversi sound system e produttori dell’epoca (Alton Ellis, Prince
Buster, Dillinger e Big Youth), fino a ricevere il tributo di band come
gli Wailers con la loro “Rule Them Rudie” (1965) ed anche
da Dandy Livingstone con la celebre “Rudy a message to you”
(1967), ripresa con successo dagli Specials nel 1979. I flussi migratori
dalla Giamaica verso l’Inghilterra si fecero intensi nei primi
anni ’60 e si concentrarono nei quartieri operai . A Londra, nelle
aree come Paddington, Brixton, Sheperd’s Bush, Notting Hill (guarda
caso le zone dei Clash) ci fu una grande concentrazione di famiglie
e giovani caraibici. Di fronte ad una vita precaria, piena di discriminazione
e pregiudizi, gli immigrati si rifugiarono nella cultura e nella musica
del paese natio. Già nel ’68 a Londra erano in attività
diversi sound systems con relativa diffusione di ska (gli inglesi all’inizio
lo chiamavano “jamaican blues”), e rocksteady (più
lento, forse ancor più intrigante dello ska). Il culto del rude
boy cominciava a penetrare nella cultura della giovane classe lavoratrice
inglese, e strada facendo produsse una versione inglese del “ribelle
caraibico” : quello dello skinhead, con testa rasata, bretelle,
camicia Ben Sherman, pantaloni sopra le caviglie per dare risalto alle
celeberrime Doctor Martin. Lo stesso Strummer propose fino all’ultimo
nei suoi concerti una classica canzone del reggae più “resistente”,
quella “They Harder They Came” che rese popolare Jimmy Cliff
nel 1970 e nella quale la filosofia “rude boy” era al centro
dell’attenzione : “ed io continuo a lottare per le cose
che voglio/sapendo che quanto sarai morto non potrai più farlo/
ma preferisco essere un uomo libero nella mia tomba/ piuttosto di vivere
come un fantoccio o uno schiavo”.
Detto
del legame affettivo fra i Clash e la figura del Rude Boy, dal punto
di vista “professionale” il primo vero incontro fra la band
e musicisti giamaicani è riconducibile alla collaborazione (piuttosto
rapida a dire il vero) con Lee “Scratch” Perry nella seconda
metà del 1977, quando il genialoide conduttore dei Black Ark
Studio co-produsse (insieme a Mickey Foote) il singolo “Complete
Control”. Con il singolo “White Man in Hammersmith Palais”
registrato nel febbraio 1978, i Clash raggiunsero probabilmente l’apice
delle loro composizioni in “Clash reggae style”. Eccellente
sia nel sound che nelle liriche, “White Man” è classificabile
fra i migliori brani mai scritti da Joe Strummer e Mick Jones, un pezzo
reggae composto , e non solo suonato, da musicisti bianchi, i primi
musicisti bianchi ad avere l’immagine dei loro volti dipinta nel
muro dei già citati Black Ark Studio in Giamaica. La genesi di
“White Man” risale alla sera del 5 giugno 1977 quando Joe
Strummer e Roadent si recarono all’Hammersmith Palais in Shepherd’s
Bush per partecipare ad un vibrante gig di “toasters” giamaicani
: Dillinger, Leroy Smart e Delroy Wilson. Si resero conto in fretta
che non stavano assistendo ad un concerto qualsiasi, il pubblico era
composto interamente da rasta che volevano fare la “loro festa”
senza intromissioni esterne, ed in effetti l’incontro fra Strummer
ed i “rudeboys” presenti nel locale non fu dei più
tranquilli. Insomma non tutte le situazioni di contatto, anche se animate
da sentimenti propositivi, potevano funzionare. Non era sempre come
al Roxy, con dj Don Letts al “controllo”. Questa sensazione
di forte disagio in una serata interamente posseduta dalla gente di
colore influenzerà il testo, che evidenzierà la figura
del ragazzo bianco perso in un contesto che non gli appartiene e lo
fa sentire straniero , che rivendica l’assoluta necessità
di una unione fra giovani ribelli bianchi e neri, ma che infine riflette
amaramente sul fatto che i punk-rockers stavano già “trasformando
la ribellione in soldi”. I Clash suoneranno effettivamente all’Hammersmith
Palais a metà giugno del 1980, durante il “The 16 Tons
Tour”. In quell’occasione Strummer domandò al pubblico
: “E’ questo il Palais ?”, ed il pubblico rispose
affermativamente con un boato. “Ok, adesso è tutto a posto”,
disse Joe, adesso erano lì tutti per lui e per i Clash. Le cose,
rispetto a tre anni prima, erano decisamente cambiate.
Aldilà
quindi di qualche momento di scoramento legato più all’evoluzione/involuzione
della prima scena punk, la grande passione dei Clash per il reggae trascinò
diversi gruppi di quel periodo lungo la loro scia. E’ certamente
il caso delle Slits, band al femminile (in cui militava la batterista
Palmolive, in quel periodo compagna di Strummer) che supportò
i Clash durante il White Riot Tour del 1977, e che pubblicò il
primo album, “Cut” (1978) dalle nervose atmosfere dub, sotto
l’ala protettrice del famoso produttore reggae Dennis Bovell.
Anche i Ruts di Malcolm Owen (esordio discografico nel 1978, seconda
generazione di punk-band inglesi) si ispirarono ai Clash sia per l’impegno
sociale (furono decisamente antirazzisti) sia per la passione nei confronti
della reggae-music, arrivando a stringere forti legami con la reggae
band inglese Misty in Roots (da Southall, West London), la quale li
aiutò tramite la propria etichetta Unite Label a pubblicare il
primo singolo, “In a Rut” (20.000 copie vendute nonostante
la scarsa “visibilità”). Successivamente entrarono
nelle grazie dello storico conduttore radiofonico John Peel, il quale
nelle sue famose sessioni alla Bbc contribuì non poco a diffondere
la loro musica. Con il secondo singolo “Babylon’s Burning”
(1979, storico pezzo,un classico del punk made in Uk) ottennero il loro
miglior successo commerciale entrando nelle top ten, e con il successivo
“Jah War” dichiararono il loro completo coinvolgimento nella
musica reggae. Senza dubbio una signora band i Ruts, capace di suonare
punk abrasivo (“H-Eyes”) e reggae in modo eccellente (vedi
ad esempio “Blackmans Pinch”), ma anche parecchio sfortunata
vista la prematura scomparsa del leader Malcom Owen nel 1980. Il 1978
fu anche l’anno di “First Issue”, il disco di debutto
dei Public Image Limited, la band costituita da John Lydon dopo l’abbandono
dei Sex Pistols. Per loro un dub oscuro, innovativo ed anticonformista,
segnato dal basso di Jah Wobble. L’anno successivo furono gli
Stiff Little Fingers da Belfast guidati da Jake Burns a debuttare con
un grande album, “Inflammable Material” (1979), che si muoveva
in un ambito stilistico molto vicino a quello dei primi Clash. Gli SLF
realizzarono anthem punk ad alto potenziale politico come nel caso,
fra gli altri, di “Alternative Ulster”, un inno all’autodeterminazione
nord-irlandese : “quello di cui abbiamo bisogno è / un
Ulster alternativo/afferralo e cambialo, è tuo/prenditi un Ulster
alternativo/ignora i calibri delle loro armi e le loro leggi/prenditi
un Ulster alternativo/diventa una forza anti-sicurezza/cambia l’Ulster
in cui sei nato/cambia la terra in cui sei nato”, ed utilizzarono
anche il reggae per comporre brani come “Johnny Was”, “Safe
As Houses” e “Roots, Radics, Rockers & Reggae”.
Ma se dobbiamo trovare un gruppo che proseguì e sviluppò
il “lavoro” fatto dai Clash per entrare strutturalmente
in contatto con la musica e la cultura delle indie occidentali, dobbiamo
necessariamente parlare degli Specials. Per loro fu la musica ska a
“dare un senso” ad una luminosa carriera che si sviluppò
e crebbe nel segno dell’antirazzismo e della concreta solidarietà
fra bianchi e neri. Gli Specials e la correlata etichetta 2 Tone con
base a Coventry (esordio e successo discografico nel luglio ‘79
con il 45 giri degli Specials “Gangsters”) divennero subito
il faro dello Ska Revival inglese, ricevendo gli immediati consensi
di Joe Strummer che li volle, a fare da supporto, nel tour “The
Clash On Parole” (giugno-luglio 1978). Jerry Dammers costituì
la 2 Tone attribuendogli una forte identità, fatta di impegno
e stile, che prevedeva l’integrazione della musica ska giamaicana
con l’attitudine punk, la composizione multirazziale di quasi
tutte le band (bianchi e neri nello stesso gruppo come filo conduttore
di tutto il progetto), una precisa immagine visiva dell’etichetta
attraverso l’utilizzo dei colori bianco/nero per le copertine
dei primi dischi, ed un abbigliamento stile rude boy di molti esponenti
dei gruppi a lei correlati. Incisero per la 2 Tone i “padroni
di casa” Specials, i Selecter, per un solo singolo i Madness e
The Beat, i Bodysnatchers ed anche, nel 1980, Elvis Costello con il
singolo “I Can’t Stand Up For Falling Down”. L’impegno
antirazzista dei ragazzi con i “porkpie hats” si concretizzò
in tutta una serie di iniziative a decorrere dal ’79 (gli Specials
furono in prima fila nel Rock Against Racism), supportato dal crescente
interesse dei ragazzi inglesi nei confronti di un fenomeno, quello dello
ska-revival, che offriva loro musica vibrante e ballabile all’interno
di uno scenario naturalmente multiculturale. Se i neo nazisti del National
Front esaurirono la loro pericolosità nel giro di qualche anno,
più di un merito va attribuito al “giro” 2 Tone ed
alla sua capacità di coinvolgere l’audience giovanile nel
rigetto delle tesi e dei comportamenti dell’estrema destra.
“Conscious
Reggae”, antirazzismo, antifascismo, rock e politica. Ci fu un
evento che risulterà simbolicamente molto importante per i Clash
e per i “Black British” : il concerto in Victoria Park del
30 aprile 1978 organizzato dall’Anti-Nazi League, che vide Joe
Strummer e soci esibirsi dal vivo insieme a Steel Pulse, X-Ray Spex,
il “poeta punk” Patrick Fitzgerald e la Tom Robinson Band.
Per inquadrare meglio la situazione è opportuno dedicare un po’
di spazio alla genesi dell’Anti-Nazi League. L’ANL nacque
nel maggio del 1977 come reazione all’avanzata dei fascisti del
National Front che aveva preso 119.000 voti nelle elezioni locali londinesi.
L’unica forza politica che in quel periodo si opponeva davvero
alle violenze fasciste nell’ East End londinese era il Socialist
Workers Party, sistematicamente attaccato nelle sue sedi e durante le
riunioni dei propri militanti. Il National Front voleva il controllo
delle strade, voleva intimidire gli immigrati intensificando le aggressioni
ed ogni forma di razzismo xenofobo. Tempi duri, estremamente violenti,
l’escalation della destra estrema era preoccupante. Nel periodo
fra il 1976 ed il 1981 furono 31 le persone di colore assassinate in
Gran Bretagna per mano fascista. Bisognava quindi tornare all’iniziativa
rapidamente, anche fisicamente, far vedere che l’opposizione a
questo stato di cose era viva e voleva confrontarsi. Così alcuni
membri del Socialist Workers Party, dopo aver dovuto digerire anche
le parole di apprezzamento di Eric Clapton per un deputato conservatore
noto per le sue posizioni razziste, decisero di costituire l’Anti-Nazi
League, che diverrà la più grande organizzazione anti-fascista
in Inghilterra. La forza dell’organizzazione si espresse con gli
eventi di Lewisham, un quartiere a sud di Londra, densamente popolato
da asiatici ed immigrati caraibici. Il 13 agosto 1977 il National Front
organizzò una marcia provocatoria proprio verso il quartiere
di Lewisham che voleva intimidire i residenti e mostrare i muscoli dopo
che la maggior parte dell’opinione pubblica inglese era rimasta
passiva di fronte all’escalation delle loro azioni violente. Circa
10.000 antifascisti (bianchi, neri, studenti, lavoratori) risposero
all’appello dell’ANL e si opposero fisicamente al passaggio
del corteo, e, dopo diverse ore di battaglia con fascisti e polizia,
riuscirono a bloccare e disperdere la marcia. Sull’entusiasmo
di quella netta vittoria l’ANL (sempre con il Socialist Workers
Party a tirare le fila) mise in piedi altre iniziative come la campagna
“Right To Work” ed il “Rock Against Racism”.
Il manifesto programmatico del Rock Against Racism era perentorio :
“Vogliamo musica ribelle/musica della strada/musica che possa
abbattere la paura fra la gente/musica di adesso/musica che conosca
chi sia il vero nemico/Rock contro il razzismo/Ama la musica odia il
razzismo”. Nel corso della sua storia il R.A.R. ottenne l’appoggio
di altre punk band come Buzzcocks, Uk Subs e gli Sham 69 guidati Jimmy
Pursey, che furono gli headliner del secondo grande raduno del movimento,
tenutosi il 24 settembre 1978 a Brockwell Park davanti a 100.000 persone.
Ma il primo appuntamento (e che appuntamento) del R.A.R. fu proprio
l’organizzazione del concerto al Victoria Park, nel quale i Clash,
come racconta l’ex roadies Johnny Green nel suo “A Riot
Of Our Home”, furono fortemente richiesti dall’organizzatore
John Dennis. I Clash furono subito d’accordo a partecipare mentre
Bernie Rhodes fu piuttosto freddo sull’argomento. “Sono
sicuri di sapere cosa stanno facendo? Vogliono davvero avere a che fare
con quel modello di studenti?”. La replica di Strummer non si
fece attendere : “La gente deve cominciare a camminare prima di
correre. Se la gente scende dal proprio letto per un giorno abbiamo
ottenuto qualcosa. Se la gente pensa alla politica anche solo per rendersi
conto che odia i fascisti, questo è già qualcosa”.
I Clash fecero il loro concerto davanti ad una massa di 80.000 persone
e la cosa lasciò il segno, provocando grandi emozioni nella band
che presentò dal vivo anche nuovi pezzi : “Tommy Gun, “The
Last Gang in Town”, “English Civil War”, “Guns
Of The Roof”, suonando l’ormai classica “White Riot”
insieme a Jimmy Pursey. Abituati ad un pubblico di 1.000 persone o giù
di lì, scesero dal palco eccitati e soddisfatti di aver partecipato
ad un evento significativo da ogni punto di vista. Probabilmente si
resero conto di aver cominciato un cammino diverso, inimmaginabile solo
qualche mese prima, mentre in Inghilterra era già percepibile
il tramonto del punk del biennio storico.
Al concerto anti-razzista di Victoria Park suonarono,fra gli altri,
anche gli Steel Pulse, la migliore reggae band uscita dall’Inghilterra.
Il loro leader, David Hinds dichiarò : “Noi non possiamo
ignorare la politica, perché ogni vita ed ogni anima nata su
questa terra è portatrice di politica per qualcuno, allo stesso
livello”. Formati alla Handsworth School di Birmingham, gli Steel
Pulse pubblicarono nel 1978 il loro primo album, “Handsworth Revolution”,
una pietra miliare del reggae inglese, preceduto da un singolo, “Ku
Klux Klan”, dal titolo emblematico. Orgoglio, identità,
voglia di alzare la testa e di contare sono elementi che troviamo nel
loro sound come dimostra il testo di “Handsworth Revolution”
: “La gente di Handsworth sa che una mano lava l’altra,
così dicono/Quindi unite le mani, tracciate la strada per i nostri
figli e per il loro figli/ Accertandovi che ottengano la giusta parte
di uguaglianza/la giustizia non è uguale con tutti/la giustizia
non è uguale con tutta l’umanità/ Incoronazione,
incoronazione nel posto del Demonio/ Handsworth significa noi, la gente
nera/Stiamo parlando adesso, lo stiamo facendo nel linguaggio di Jah/Veniamo
da molto lontano/ Per inviare questo messaggio/Che è stato nascosto,
proibito, celato, non rivelato/Che è stato preso per uscire fuori,
all’aperto/ Babilonia sta crollando/Babilonia sta crollando/Non
ha senso costruire nella sabbia/Handsworth si leverà in piedi
costantemente, come il rock di Jah/Una volta eravamo mendicanti, ora
vogliamo contare/Nessuna intenzione di essere perdenti/Ci batteremo
con ambizione/E se vogliono prendere le munizioni/Noi insorgeremo nella
rivoluzione di Handsworth”. Roba bella tosta, non c’è
che dire, in linea perfetta con i tempi, con quel diffuso sentimento
di riscatto insito fra la gente di colore nell’Inghilterra fine
anni ’70. Non solo e non più il richiamo a Jah ed alla
terra natia ma voglia di lottare in quel momento, nel paese nel quale
stavano vivendo.
Per i Clash, il rapporto artistico più significativo con artisti
giamaicani è certamente quello intrattenuto con il deejay e produttore
Mikey Dread, a partire dal 1980. La popolarità di Dread era molto
cresciuta dopo il successo della sua trasmissione radiofonica in Giamaica
“Dread at the Controls”, nella quale poteva sfoggiare tutta
la sua enorme cultura legata alla musica reggae. Come detto non era
solo un dj ma anche musicista ed abile produttore, la cui tecnica innovativa
spinse i Clash a contattarlo per la produzione di “Bankrobber”
. “Non avevo mai sentito prima il nome “The Clash”.
Sono andato in Inghilterra senza sapere esattamente cosa mi aspettasse.
Quando arrivai in studio (Pluto Studio di Manchester, febbraio 1980
ndr) e loro cominciarono a suonare questo pezzo, ed io mi chiesi, “cosa
fanno ?”, non avevo mai sentito nessuno cantare così velocemente!
Gli dissi di provare a suonare il pezzo in modo più lento, più
reggae. Diedi loro l’idea per la linea di basso e Paul Simonon
la eseguì facilmente perché ascoltava già un sacco
di reggae. Dissi anche a Joe Strummer di cantare più melodicamente
e meno velocemente. Li guidavo e loro si misero a lavorare davvero bene”.
Cominciò così a nascere una esperienza davvero importante
per tutte le parti in campo. Ancora Dread : “Culturali, razziali,
tutte le barriere furono abbattute. I Clash mi trattarono come un amico,
un fratello, un uomo bianco, con uguaglianza….. questi ragazzi
furono come miei vecchi amici, furono i miei tutori quando ero lontano
dalla Giamaica”. E ancora “Una cosa posso dire sui Clash.
Loro erano davvero antirazzisti. Molte volte durante il loro tour sono
stato in posti dove alcuni skinheads e punk volevano farmi il culo,
perché ero di colore, ed i Clash si preoccupavano sempre che
qualcuno di loro rimanesse sempre con me, non mi lasciavano mai solo
in quelle situazioni. Loro avevano ai piedi le Doctor Martin e ne comprarono
un paio anche a me, sapevano che eravamo sullo stesso sentiero di guerra”.
A dire il vero le esperienze dei Clash in Giamaica non furono altrettanto
“piacevoli”. La prima volta toccò a Mick Jones e
Joe Strummer nel dicembre 1977 e finì che i due quasi scapparono
da Kingston a causa del clima estremamente violento della capitale giamaicana
: “andammo al molo e penso che ci salvammo solo perché
ci scambiarono per marinai” (Joe Strummer). Al ritorno in Inghilterra
scrissero “Safe European Home” (dal loro secondo disco,
Give’Em Enough Rope” – Novembre 1978), il cui testo
descrive le difficoltà psicologiche e fisiche incontrate in un
ambiente quasi ostile. La seconda volta invece ci andarono tutti , invitati
da Mikey Dread,al Channel One Studios a Kingston, per registrare “Junco
Partner”. Anche qui fu una fuga con il cuore in gola, raccontata
nel libro di Keith Topping, “Complete Clash”. Fu Mickey
Dread a sventare il pericolo : “Veloci, dobbiamo andare. Stanno
arrivando gli spacciatori e vogliono fare una strage”. Gli ultimi
clienti bianchi degli Studios erano stati i Rolling Stone che probabilmente
distribuirono parecchi soldi ai boss locali per evitare violenze e fastidi
vari. I Clash vennero quindi visti come polli da spennare, ma finanziariamente
il paragone non poteva reggere. Due esperienze, per usare un eufemismo,
non esaltanti, su questo si deve convenire.
Dopo la produzione di Bankrobber, che fu fra le altre cose uno dei loro
maggiori successi commerciali, i Clash fecero lavorare, e molto, Mikey
Dread in “Sandinista!” attraverso la sua collaborazione
in diversi brani : “Junco Partner”, “Living In Fame”,
“One More Time” , “One More Dub”, “If
Music Could Talk”, “Sheperd’s Delight”. Inoltre
il dj giamaicano partecipò e salì spesso sul palco nel
corso del “The 16 Tons Tour”. Un ultimo episodio può
cogliere ,a mio avviso meglio di altri, lo “spirito solidaristico”
che animava i Clash. Lo racconta lo stesso Dread : “Non credevo
di andare in tour con loro, ma loro mi chiesero di seguirli, perché
volevano introdurmi al loro pubblico. Ma una delle prime esperienze,
a Los Angeles, non la dimenticherò mai. Lì i punk erano
davvero matti, l’atmosfera tesa, era come se l’inferno si
stesse avvicinando. Dissi che non volevo suonare quella sera, perché
avevo la netta sensazione che la gente non volesse vedere nessun uomo
di colore in giro, mi bastavano gli sguardi. Joe Strummer mi rincuorò
: Vai sul palco e affrontali, non lasciargli dire quello che dovresti
fare. Salii sul palco e con aria seria dissi : pensavo di essere venuto
negli Stati Uniti per trovare gente intelligente, gente dalla mentalità
aperta, gente cosmopolita, gente senza pregiudizi razzisti, gente che
vuole un mondo in cui si possa vivere uniti. Beh, credetemi, il pubblico
cominciò a diventare più tranquillo. Quindi continuai
: so che siete venuti a vedere i Clash, ma io voglio cominciare con
un po’ di reggae music, il reggae delle radici! Siete pronti ?
Risposero il classico yeah ! Attaccai il primo pezzo e le prime file
si mossero al ritmo. Avevo rotto il ghiaccio”.
Il legame fra i Clash e Mikey Dread fu davvero intenso, anche se a dire
il vero negli anni successivi nacque qualche problema circa i diritti
sulle canzoni composte insieme. Ancora oggi Dread propone dal vivo “Bankrobber”,
dedicandola alla memoria di Joe Strummer.