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del pezzo. Su
questo particolare palcoscenico salirono, attraverso percorsi differenti,
ma con i medesimi intendimenti, una delle coppie più prolifiche
che l’intera storia del rock inglese abbia incontrato : Joe Strummer
e Mick Jones. Nel 1974, il capellone dal look glam Michael Geoffrey
Jones, diciannovenne studente della Hammersmith Art School al 40 di
Lime Grove, Shepherds Bush, era assorbito dalla passione per i Mott
The Hoople, per gli Stooges, per gli MC5 con i loro messaggi rivoluzionari,
e per le New York Dolls, dove militava uno dei suoi idoli, Johnny Thunders.
Compratosi una chitarra elettrica, Jones sembrava già avere un
atteggiamento da “personaggio speciale”, da rockstar, con
i suoi pantaloni di pelle ed i suoi occhialoni neri. Viv Albertine,
futura componente delle Slits, ricorda : “Penso che avesse un
aspetto davvero grandioso, appariva distante mille miglia dagli altri
studenti”. Coinvolto totalmente nella musica, assisteva a numerosi
concerti, avvicinandosi il più possibile ai musicisti più
amati, fra i quali rivestiva un ruolo speciale anche Ian Hunter, voce
e seconda chitarra dei Mott The Hoople. La transizione dagli accordi
di chitarra ossessivamente provati e riprovati nella sua camera alla
Wilmcote House, alla formazione di una propria band fu abbastanza rapida.
Jones aveva talento, creatività, ambizione, voglia di emergere,
niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo. Prima i Delinquents, poi i
London SS, infine i Clash. Non solo una rockstar in embrione però.
Mick Jones veniva dalla classe proletaria, aveva avuto un’infanzia
non proprio in discesa, aveva subito il divorzio dei genitori a soli
8 anni. A dispetto di quanto poteva apparire superficialmente, era un
ragazzo con principi solidi, un idealista che difendeva il concetto
di “gruppo”, aveva una visione effettivamente comunitaria
di band. Joe
Strummer proveniva dall’altro lato della strada, ma aveva avuto
la forza ed il coraggio per attraversarla. Percorso non semplice, che
gli creò qualche problema. Figuratevi : nell’anno zero
del punk il leader della band più politicizzata proveniva dalla
piccola borghesia, dalle scuole private. Ma proprio per questo la scelta
di cambiare radicalmente il corso della propria vita fu ancora più
affascinante, dirompente, più rischiosa rispetto ai suoi compagni
di viaggio, “working class” in origine. Decisione radicale,
meritevole del massimo rispetto. Mise il suo cuore nel posto giusto
Joe Strummer, mettendo a disposizione la propria vivace intelligenza,
carisma, sensibilità politica, innata curiosità, elevata
cultura di base per un progetto, quello dei Clash, destinato ad incidere
profondamente nella storia del rock’n’roll. Se Mick Jones aveva i suoi punti di riferimento musicali nelle band di fino anni ’60 e primi anni ’70, Joe Strummer amava il folk (e Bob Dylan), il R&B, ed il rock’n’roll degli anni ’50. Ma soprattutto era rimasto totalmente coinvolto dai testi politici di Woody Guthrie, identificandosi con il grande cantastorie di protesta americano al punto di farsi chiamare, quando suonava con i Vultures, e fino ai primi mesi del 1975 con i 101’ers, Woody Mellor. L’avvicinamento alla cultura sinceramente più popolare del r’n’r, portò gradualmente il giovane Strummer a sviluppare una propria coscienza politica che venne segnata da un episodio (uno sfratto violento) accaduto nel 1972 dopo che si era trasferito a Londra : “Mi sono bruciato il culo con il sistema capitalistico”, dichiarò nel 1980 al Sounds, “La polizia venne chiamata dai proprietari dello stabile (in Ridley Road, ad Harlesden) e mi picchiò, prendendomi a calci, tutto illegalmente, mentre io gli sventolavo la sezione 22 del Rent Act 1965. Li ho visti distruggere tutti i miei dischi, solo perché c’era una persona di colore nella casa. Questo è il vostro amabile capitalismo, il vostro stile di vita, andate a farvi fottere !”. Da quel momento Strummer si staccò definitivamente da quelle che erano le regole di vita imposte tradizionalmente dalla società borghese. Al seguito della sua ragazza si trasferì, nel 1973, a Newport, nel Galles, iscrivendosi al Newport College of Art, dove venne in contatto con persone del Partito Comunista, la forza predominante fra gli studenti del College. Fu un flirt piuttosto rapido e superficiale anche se spontaneo e motivato da vero sentimento di ribellione. In realtà Joe Strummer non divenne mai un militante politico nell’accezione più ortodossa del termine ma fu sempre un ribelle appassionato ed idealista. Pasolini scriveva nel ’62 : “La borghesia non ama la vita: la possiede. E ciò implica cinismo, volgarità, mancanza reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e come blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica amore per la vita, e,con questo, la revisione rigenerante, energica, amorosa della storia dell’uomo, del suo passato”. Forse lo Strummer di quel periodo si sarebbe potuto riconoscere in questa riflessione. Il suo rientro a Londra, nel maggio 1974, lo vide sposare completamente lo stile di vita ed il modo di pensare degli squatters : se uno non ha soldi, è un atto politico legittimo quello di prendere per se un appartamento sfitto e dichiarare subito dopo di poterci vivere legalmente. La presenza di esuli cileni fra gli squatters di Maida Hill, portò Strummer a suonare con i suoi 101’ers due concerti in sostegno della resistenza cilena nata dopo il colpo di stato del generale Pinochet (Cile, settembre 1973), nel contesto della Chile Solidarity Campaign. Il primo dei concerti avvenne nel settembre ’74 al Telegraph music pub di Brixton, il secondo al Royal College Of Art (novembre ’74) con tutto un dispiegamento di bandiere rosse, immagini di Che Guevara, Allende, Marx, Lenin, nel quale Strummer dimostrò di essere un frontman dal carisma eccezionale. Fu una convention culturale e politica, in cui imperava lo slogan : “Buttiamo il rock’n’roll capitalista fuori di qui !”. Nel 1975 ci sarà un altro cambiamento di nome : da Woody Mellor a Joe Strummer. Ready for The Clash? Al duo delle meraviglie Strummer-Jones deve essere affiancato, con altre valenze, Paul Simonon. Grande look da vero rude boy, forte personalità, infanzia difficile nel quartiere londinese di Brixton, l’adolescenza vissuta nel mito dello skinhead come simbolo ribelle ed aggressivo della working class. Simonon sviluppò nondimeno contatti quotidiani con la comunità giamaicana, in un area in cui l’odore, i colori ed i suoni dell’isola caraibica sono percepibili anche attraverso una semplice visita al mercato di quartiere. Il rapporto con i giamaicani significò anche assorbimento della musica reggae, da ballare nei fine settimana al “Locarno” in Streatham Hill. Un sound che Simonon contribuirà non poco ad introdurre nei Clash, e non fu fattore secondario, perché quando si parla di reggae, di quel reggae (Ethiopians, Rulers, Toots And the Maytals, Big Youth, Culture), non si può fare a meno di metterne in luce i suoi contenuti politici, la sua forte coscienza sociale. Da questo reggae i Clash trarranno molteplici imput ben visibili in tutto il corso della loro produzione artistica (testi e musica), come si vedrà negli articoli che seguiranno. Anch’egli studente d’arte (Strummer definì le scuole d’arte di Londra come “l’ultimo ripiego per lavativi ed imboscati e per gente che fondamentalmente non voleva lavorare”), anche se part-time a causa del lavoro, alla Byam Shaw School a Campden Street, Simonon unirà la sua creatività a quella di Jones e di Strummer. Una creatività (la sua passione per la pittura era già sbocciata) che tornerà utile e si esprimerà in varie forme negli anni trascorsi con i Clash, a cominciare dalla scelta del nome da affibbiare alla band. Il rudeboy da Brixton stava per cogliere un’opportunità unica per esprimersi, immergendosi, lui che non sapeva neppure cosa fosse uno strumento, in un’arena destinata a moltiplicare di botto i suoi protagonisti. Jones, Simonon, Strummer. Tre soggetti con buona quantità di polvere da sparo pronta ad essere innescata. Ci voleva l’idea, il collante magico per creare un’esplosione davvero forte, sconquassante, uno “scontro” fatale. Entra in campo Bernie Rhodes, nato in Russia e trasferitosi con la madre a Londra nel quartiere di Soho durante gli anni ’50, con tutto il suo retroterra culturale e politico. Collaboratore della prima ora di Malcom McLaren, coinvolto sia nello storico negozio Sex in Kings Road (alcune delle trasgressive magliette in vendita nel negozio furono da lui ideate) sia nel progetto Sex Pistols in cui svolse un ruolo di primo piano, Bernie Rhodes conobbe Mick Jones nel 1975 al Nashville . La crisi nei rapporti con McLaren era già arrivata all’apice : non c’era più spazio per due soggetti. Malcom voleva proseguire da solo, voleva il totale ed assoluto controllo dell’operazione Sex Pistols, compresi gli effetti mediatici e di costume. Rhodes si trovò quindi nella situazione di portare avanti autonomi progetti che avrebbero preso corpo attraverso la costituzione di una nuova band, al cui centro si trovava Mick Jones. Ecco dunque nascere i London SS e, a completamento di un percorso travagliato, i Clash nel 1976. In “Westway To The World” (1999), Joe Strummer dichiarò : “Fu Bernie Rhodes che ci disse di scrivere circa quello che ci interessava, di cose vere”, “non scrivete canzoni d’amore” ripeteva Rhodes. Un approccio che arrivava dritto dritto dall’interesse di Rhodes verso il Situazionismo, un movimento artistico radicale nato in Francia sul finire degli anni ’50 che vedeva in Guy Debord il suo esponente più autorevole e brillante che seppe fondere insieme elementi della teoria marxista e dell’arte d’avanguardia. Il Situazionismo, che ebbe una certa influenza sul movimento del ’68 francese ( sui muri di Parigi apparsero diversi slogan situazionisti), fu un movimento variegato che propose una moltitudine di testi, dichiarazioni, manifesti, per nulla semplici da inquadrare organicamente. In particolare la teoria situazionista sul superamento dell’arte così come era stata concepita fino ad allora, può rivelarsi utile per comprendere l’approccio attraverso il quale i Clash affrontarono agli esordi il loro percorso nella “società dello spettacolo” ,il titolo del libro pubblicato nel ’62 da Debord che “descrive la condizione postbellica, in cui la gente è tenuta in schiavitù da un sistema di comunicazione unificato che include Tv, giornali, musica pop, e la stessa cultura” (Jon Savage, “Il sogno inglese”). Per il situazionismo il concetto di arte e politica intese come attività separate era finito, l’unica possibilità di un loro recupero ad un livello superiore si determinava nel progetto di liberazione totale dell’individuo partendo dalla sua vita quotidiana. Ovviamente gli strumenti impiegati per raggiungere questo obbiettivo non potevano più essere solo politici o solo artistici. Fra i vari mezzi tendenti al superamento dell’arte, la costruzione di “situazioni” era senz’altro quello più importante e quello che comprendeva tutti gli altri : la situazione veniva definita come “un momento della vita concretamente e deliberatamente costruito per mezzo dell’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti”. Ecco la soluzione prospettata per superare l’arte borghese e l’industria culturale : “poiché l’uomo è il prodotto delle situazioni che attraversa, è importante creare delle situazioni umane”. Le esperienze di vita dell’uomo fondono insieme arte e politica, e nella società mercantile-spettacolare la soluzione del problema non passava più per questo o per quello strumento specifico, ma nella strada. Una teoria dal sicuro fascino, promossa da un’organizzazione rivoluzionaria e trasgressiva che tentava una saldatura sistematica fra due mondi paralleli ma separati, proprio perché cresciuti ognuno sulle proprie premesse specialistiche, quello della politica e quello dell’arte. Il potere singolare della “forma spettacolo” gli viene soltanto dall’essere stato posto per un momento al centro della vita sociale : “lo spettacolo risuscita ciò che è morto, importa ciò che è straniero, reinterpreta ciò che esiste”. Quale omaggio più grande a Van Gogh che non prendere in ostaggio i quadri di una mostra e chiedere la liberazione di prigionieri politici? Quale uso migliore dell’arte del passato per renderla ancora viva se non impadronirsi delle opere dei musei e portarle sulle barricate? Riadattando queste istanze situazioniste all’ “idea Clash” non è difficile valutare il loro impatto sulla band. Bernie Rhodes, che seguì anche le gesta del gruppo situazionista britannico King Mob (“il gruppo che più d’ogni d’altro cercò di mettere in risalto una Gran Bretagna anarchica e tumultuosa”), portò il suo “approccio situazionista” dentro i Clash, spronandoli a parlare dei loro problemi quotidiani, di quello che vedevano ogni giorno, ad “essere politici” proprio perché veri, a misurarsi costantemente con la strada dalla quale provenivano. Questo processo di annullamento del gap fra arte e vita reale si realizzò in modo deciso, basta leggere i testi di “The Clash” (aprile ’77) , folgorante esordio discografico su Cbs. Si realizzò non senza una buona dose di cinismo e spregiudicatezza: “occorre l’amalgama fra rozzezza da classe operaia e ragazzi della media borghesia per far funzionare un gruppo” (Rhodes), ma diede effetti concreti, con risultati che sfuggirono ben presto dalle mani dello stesso manager. “Bernie aveva in testa l’idea dei Clash ed i Clash non sarebbero mai esistiti senza Bernie Rhodes” dichiarò successivamente Joe Strummer, e probabilmente l’orientamento indicato dell’ex socio di McLaren comprendeva anche la scelta di imbrattare con frasi ad effetto le magliette e le giacche di pelle dei quattro cavalieri, sul modello dell’ ”action painting” di Jackson Pollock . E’ verosimile altresì che fu lo stesso Rhodes a suggerire il titolo di “White Riot”, riprendendolo dalle dichiarazioni dell’organizzazione statunitense Weathermen, che a sua volta trasse il proprio nome da una frase contenuta in “Subterranean Homesick Blues” di Bob Dylan : “Non c’è bisogno di un metereologo (wheaterman) per sapere da quale parte soffia il vento”. Permettete una breve digressione : gli Weathermen furono un gruppo di studenti bianchi che tra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70, entrarono in clandestinità sconvolgendo l’America con una serie di azioni terroristiche spettacolari che colpirono ministeri, edifici della polizia, banche, prigioni, senza mai causare vittime. Il loro primo riot militarmente organizzato si tenne a Chicago nell’ottobre ’69 e venne denominato “Days Of Rage”. I giorni della rabbia appunto, rabbia bianca, da affiancare a quella dei ghetti neri, del Black Panther Party. Ed a proposito di “rabbia bianca” è interessante notare, come dichiarato da Mick Jones in “Westway To The World”, che fra le band preferite dai membri dei Clash ci fossero gli MC5 da Detroit, uno fra i gruppi più radicali di fine anni ’60 il cui sferragliante disco d’esordio (e migliore della carriera) fu il live “Kick Out The Jam” (Elektra ’69). Dietro gli MC5 c’era il manager John Sinclair, che fra le altre cose fu anche giornalista, attivista politico, scrittore, poeta jazz, dj blues, e soprattutto figura di spicco del “White Panther Party”, altro movimento politico fondato nel ’68 negli States che richiedeva, attraverso i 10 punti del proprio programma costitutivo, totale libertà economica (si chiedeva l’abolizione del denaro come forma di scambio) e culturale e che intendeva dare l’assalto alla cultura dominante, anche attraverso il r’n’r. Ma aldilà ed oltre questi aspetti, il fulcro del “progetto Clash nella testa di Bernie Rhodes” era la ricerca del rapporto ineludibile fra politica e verità, che porta a stabilire come l’essenza della politica sia proprio nel suo rapporto con la verità. L’arte per essere davvero arte (rivoluzionaria) deve essere, come si diceva, al centro della vita sociale, deve essere vera e perciò politica. E’ probabilmente questo uno degli elementi, con caratteristiche quasi filosofiche, per comprendere nel profondo il grande successo dei Clash. Ovviamente il sound, il look, il talento, l’energia furiosa delle loro apparizioni live furono essenziali per il successo del progetto, ma le fondamenta stanno verosimilmente in questo assunto che venne mantenuto,nella sua essenza, dai Clash nel corso di tutta la loro carriera . L’importanza della figura di Bernie Rhodes (soprattutto con la band agli esordi) non significa però, come già anticipato, che i Clash fossero dei bambolotti nelle mani del burattinaio. Fu una forte e creativa guida iniziale, senza però riuscire mai ad avere un reale controllo di tutta la situazione, se è vero che già nel 1978 venne estromesso dalla band, che aveva visto nel 1977 l’ingresso del magnifico Topper Headon in formazione al posto di Terry Chimes. Headon, formidabile drummer con le radici nella black music, si inserì presto nel sound e nello spirito della band diventando determinante per il futuro artistico dei Clash. Partendo dall’input ispiratore conferito loro da Rhodes, i Clash imposero negli anni un proprio autonomo stile a 360°, trasferendolo come vedremo alle scelte musicali dove il reggae divenne elemento molto importante, al rapporto strettissimo e di identificazione con i fan, alla politicizzazione (nel senso sopra descritto e sempre più ad ampio respiro) del loro essere musicisti . Uno “stile” sin dagli esordi ai limiti delle convenzioni del punk rock : mai nichilista, senza svastiche e spille da balia conficcate nelle carni, ma profondamente ribelle nei comportamenti, passionale e sincero, che faceva trasparire un’etica inusuale “per la società dello spettacolo“. Caratteristiche peculiari che li fecero diventare da subito la “coscienza politica” del punk-rock. Con i Clash l’intesa fra il punk ed i giovani si sviluppò attraverso i contenuti, sulle radici comuni, sull’identità, sulla voglia di agire. Ecco cosa affermava Strummer nel 1976 al NME : “Bisogna imparare dagli errori. I Rolling Stone hanno fatto errori. Io voglio fare qualcosa di utile con i soldi. Non voglio andare in giro a spendere tutti i miei soldi in droga, con i miei soldi voglio mettere in piedi una nuova stazione radio”, ed ancora Paul Simonon al Melody Maker nel novembre ’76 : “Noi possiamo ispirare la gente. Non c’è nessun altro che può farlo in questo modo. Il r’n’r è davvero un buon mezzo di comunicazione. Ha impatto, e se noi riusciamo a fare il nostro lavoro correttamente, possiamo rendere la gente consapevole di situazioni che altrimenti tenderebbe ad ignorare. Possiamo avere un vasto effetto”. Nel
giro di qualche mese (aprile ’77) le posizioni vennero per così
dire “messe a fuoco” in chiave realistica dopo la sfortunata
esperienza, per il movimento punk, dell’ “Anarchy in the
UK Tour”. Ecco le riflessioni, amare ma fiere al tempo stesso,
di Joe Strummer sul tema (MM aprile ’77) : “Ognuno va e
dice : viva il Punk! Ma nessuno di noi sta cambiando qualcosa. Ma dopo
aver detto questo, perché voglio far sapere che non mi faccio
alcuna illusione su niente, dico che io voglio continuare a provare
a cambiare le cose. La cosa che mi interessa oggi è la mia libertà
personale. Io voglio avere il diritto di scegliere. Ovviamente non voglio
averlo da solo, tutti devono prendersi questo diritto fondamentale”. I Clash e la politica. Ancora una volta, per capire, ecco le parole di Strummer, datate 1999, sull’argomento : “Siamo sempre stati di sinistra. Ma abbiamo dichiarato di non avere le soluzioni per i problemi del mondo. Abbiamo cercato di trovare una via socialista affinché il mondo potesse essere un posto meno miserabile di quello che in effetti è. Se Karl Marx non è stato capace di fare questo, non ci poteva essere alcuna possibilità che quattro chitarristi da Londra potessero farlo al suo posto. Stavamo come brancolando nel buio. Avevamo una specie di direzione da seguire, ma non sapevo dove ci avrebbe portato. Devi pensare per te stesso : cosa potresti fare se avessi il controllo del mondo ?. E’ una domanda difficile, ed io non penso che noi abbiamo a disposizione una risposta per un quesito del genere. Non riguarda quello che avremmo dovuto fare, ma quello che abbiamo provato a fare… Provate a riflettere su questo tipo di domande. Noi ci abbiamo provato. Abbiamo provato a pensare e parlare come ogni altro circa quello che stavamo facendo, o circa il significato di una canzone, o circa quello che avremmo o non avremmo dovuto fare. Ma non abbiamo mai fatto marcire la questione, non eravamo un gruppo pigro. Noi abbiamo sempre pensato, per tutto il tempo, al nostro pubblico.” E’
chiaro che, a distanza di oltre 20 anni dalla fine dello scontro, le
riflessioni politiche siano più stemperate rispetto all’aggressività
delle dichiarazioni del giovane Strummer, che però, gia nel ’78
dichiarava a Time Out : “Tutto ciò che vogliamo ottenere
è un’atmosfera nella quale le cose possono accadere. Per
conservare lo spirito del mondo libero (e vivo). Lo vogliamo conservare
fuori da quella melma unta che esce fuori dalle radio. Tutto ciò
che abbiamo sono delle chitarre, amplificatori e batteria. Questo è
il nostro armamento.” Anche Mick Jones precisò, nel dicembre
’77, prima del “caldo” concerto che i Clash tennero
a Belfast, Irlanda del Nord (nel pieno del durissimo sforzo repressivo
inglese nei confronti dell’Ira): “E’ una cosa essenziale
per noi suonare qui. Ma non siamo un esercito, siamo una band di rock’n’roll”. Arte,
Politica, Verità, Comunità. Anche sull’aspetto comunitario
dei Clash è doveroso un breve inciso. Joe Strummer e soci crearono
una vera comunità intorno a loro, stratificata in vari periodi
e comprendente altri musicisti come Tony James, Chrissie Hynde, Glen
Matlock (amici di Jones), Sid Vicious (amico di Strummer e Simonon),
le Slits, ma anche i roadies Johnny Green, Barry Glare, Roadent, The
Baker, Robin Banks, il film-maker Don Letts, i fotografi Pennie Smith
e Bob Gruen, il p.r. Kosmo Vinyl, il Dj Barry Scratchy Myers, il grande
disegnatore Ray Lowry, alcuni giornalisti che si innamorarono della
loro musica (e di qualche componente), tipo Tony Parsons, Pat Gilbert,
Khris Needs, Caroline Coon, Chris Salewicz. Tutti loro furono una parte
vitale e fondamentale della storia dei Clash, ed i Clash ebbero sempre
un’attenzione particolare per la loro crew, anche quando qualche
componente lasciava la compagnia. Prendete ad esempio il road manager
Johnny Green che a Boston nel marzo del 1980 annunciò di voler
restare a vivere negli States. I Clash, dispiaciuti, presero atto della
sua decisione. La sera stessa, mentre i Clash suonavano a Detroit, qualcuno
bussò alla porta della stanza di Green. Era un’avvenente
ragazza di colore, modello Diana Ross, che si presentò così
: “Ciao Johnny, sono il saluto ed il regalo dei Clash per te…”.
Carini no ???
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