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La politica di governo si appoggiava alla macchina statale che mostrava una linea dura verso le richieste salariali ed un atteggiamento poco indulgente verso le rivendicazioni economiche in genere. Questo venne anche dimostrato con l’atteggiamento tenuto nel placare gli scioperi, e con il rifiuto del governo ad intervenire nell’assicurare un compromesso riguardo le pretese salariali dei Sindacati. Questa situazione portò ad ulteriori scioperi nel 1971. Nel 1972 i minatori scioperarono e durante i negoziati la quantità di elettricità che l’industria utilizzava dovette essere ridotta sensibilmente. La crisi del petrolio degli anni ’70 danneggiò l’economia della Gran Bretagna in modo drammatico e lasciò un segno indelebile su tutte le nazioni, dopo che i costi per le forniture di petrolio dai paesi dell’Opec aumentarono drasticamente. Nel 1974 i minatori scioperarono ripetutamente e ci fu un’altra riduzione energetica importante. Nello stesso anno a Londra, in Red Lion Square, lo studente Kevin Gately diventò la prima vittima in una manifestazione sul suolo britannico dopo 55 anni. Nel 1976 la situazione economica si deteriorò maggiormente e questo creò i presupposti per i successi del National Front Party, l’ala più radicale dell’estrema destra, al quale si opposero gruppi come Liberation e IMG (International Marxist Group) che manifestavano sistematicamente in opposizione alle marce del National Front. I successi politici dell’estrema destra furono limitati alla vittoria di due seggi a Blackburn nel ’76. A tutto questo si aggiunse il problema Nord Irlandese, con l’escalation di attentati compiuti sul suolo inglese da parte dell’IRA, che gettò la popolazione in uno stato di disperazione ed abbattimento. La giovane e disillusa classe operaia inglese sentì il bisogno di ideare forme di protesta e ribellione. Venne da sé che la working class espresse questi sentimenti in una propria forma musicale. E questa musica rappresentò perfettamente i sentimenti dei giovani inglesi, mostrando il loro disprezzo e l’insoddisfazione nei confronti della società in generale. Questo vide l’inizio del fenomeno punk. Ant Davie In effetti alla vecchia Inghilterra i gradi di “grande potenza” erano già stati tolti dai fatti, dal dopoguerra, con il ritiro dall’Impero coloniale. Al Regno Unito dei primi anni ’70 rimaneva ben poco di cui essere orgoglioso, scarsi gli appigli per la nostalgia, scomparsa addirittura dai calendari delle scuole statali l’ “Empire Day”, la giornata dell’impero. La ventata di cambiamento culturale e di costume di metà anni ’60 sembrava diventata solo una illusoria parentesi. Mentre l’Union Jack era stata ripiegata nel resto del mondo, l’Inghilterra appariva ora come una nazione chiusa nel suo mondo insulare, in lento declino, illusa che il “rapporto speciale” con gli Stati Uniti potesse fruttare una reale indipendenza nelle scelte di politica estera. Una società stagnante e classista, ripiegata su se stessa, priva di desideri e progettualità, segnata da ineguaglianze e divisioni. Nonostante una popolazione universitaria quadruplicata rispetto al 1965, con la politica che finalmente entra negli atenei mettendo in contatto la classe media con quella operaia, rimanevano in piedi le linee portanti dell’educazione vittoriana : arcaica, autoritaria, repressiva. Insomma l’educazione della divisa e della bacchetta, del rigore psicologico e fisico in aula (bisognerà attendere il 1987 per vedere definitivamente bandite le punizioni corporali dalle scuole). Per dare un’idea di ciò che si vuole intendere parlando di società inglese classista, può essere utile fare riferimento al termine working-class (classe operaia), che in Gran Bretagna diventa quasi un aggettivo : è working class un modo di parlare, di impiegare il tempo libero; sono working class certi giornali, il tifo da stadio e la birra scura. “Working Class vuol dire popolare e vuol dire molto di più: nel termine è sottintesa la contrapposizione con un altro universo sociale e culturale. La discriminante è netta, definitiva, di casta prima che politica. Working Class si nasce e si rimane” (Paolo Pistoni, introduzione a “Una vita per il carbone”- 1976). A livello economico la spallata definitiva al sistema, la diede probabilmente il crollo, nel 1971, del sistema monetario di Bretton Woods, che sancì la fine del regime di cambi fissi con conseguente volatilità dei corsi delle valute, ed anche la quadruplicazione fra il 1973-74 del prezzo dei prodotti petroliferi (non poteva bastare lo sfruttamento dei pur importanti giacimenti petroliferi nel mare del Nord per assicurare autonomia energetica). Alcuni degli indicatori economici di quel periodo raggiunsero livelli storicamente senza precedenti : inflazione intorno al 20%, oltre 2 milioni di senza lavoro, migliaia di giovani condannati per anni all’assistenza pubblica, il sistema di welfare per la prima volta criticato aspramente. Nell’immaginario del cittadino medio inglese anche la gravissima crisi di una azienda simbolo come la Rolls-Royce (1971) ebbe un suo peso specifico. Una situazione esplosiva che i governi laburisti di Wilson e Callaghan (1974-78), subentrati al conservatore Heath sconfitto dagli scioperi dei minatori (furono sue le leggi antisciopero del 1971, denominate “Industrial Relations Act”), cercarono di anestetizzare con la sottoscrizione di un “contratto sociale” con i sindacati : aumenti di salario in cambio di una forma di “tolleranza” nei confronti della politica economica governativa che comunque rispose maggiormente alle esigenze dei lavoratori, ed in particolare alla conservazione dei posti di lavoro. Al ministero del lavoro venne insediato un vecchio leader laburista, Michael Foot, che rinforzò i diritti giuridici dei sindacati e del singolo lavoratore, mentre a livello fiscale vennero tassati maggiormente i redditi più alti. Ma la fortissima recessione non diede scampo a questo progetto, aggravando se possibile lo standard di vita reale dei lavoratori e creando un’atmosfera di panico generale, nella quale il governo fu costretto a chiedere l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale. Se le pressioni economiche portarono a gravi tensioni sociali interne, anche fuori dalle mura di casa le cose non lasciavano tranquilla la società inglese. L’I.R.A., limitata dalle severi leggi antiterroristiche del novembre 1974, aveva comunque ripreso le azioni portando la minaccia all’interno delle città inglesi, mentre anche il nazionalismo scozzese e gallese (attraverso una strenua difesa della lingua) aveva rialzato la testa pur mantenendo la protesta in un ambito costituzionale. Il paese veniva percepito, in particolare dalle sfiduciate classi medie, come sotto attacco, e certamente la presenza di un grande numero di immigrati che avevano costituito le loro comunità occupando interi quartieri nella città metropolitane, non affievoliva questa sensazione (nel 1969 il leader della destra Enoch Powell aveva chiesto persino il rimpatrio di tutti gli immigrati di colore). Non a caso proprio in quegli anni si sviluppò una recrudescenza del “sentire razzista”, simboleggiata dall’avanzata degli estremisti di destra del National Front che l’autore teatrale David Edgar portò in scena nel ’75 con la commedia “Destiny”. Tutto ciò che sapeva di libertà espressiva e di anticonformismo veniva assunto a simbolo del “permissivismo” dilagante e di affronto alla “tradizione”. Uno degli esempi di questo processo reazionario si verificò nel settore radiotelevisivo, dove un’associazione nazionale di ascoltatori e telespettatori formò una potente lobby che mirava a reinventare e riapplicare forme di censura morale e politica. E dire che il ’68 in Gran Bretagna, pur toccando punte molto radicali (in particolare nella London School of Economics e nelle scuole d’arte che assunsero un ruolo di avanguardia nel movimento), non aveva certo raggiunto l’estensione e l’intensità che caratterizzarono i movimenti in Francia, in Italia ed in Germania. Un senso di paura e di apprensione aleggiava sulle sorti del paese in un crescendo mai provato prima : che ne sarà del nostro futuro? “No Future” avrebbe gridato qualcuno da lì a poco. “The Ice Age” era il titolo emblematico di un romanzo scritto da Margaret Drabble nel 1977, vera istantanea sulla condizione soggettiva dei ceti medi messi di fronte a prospettive di vita quantomeno incerte. Eccone un breve passaggio :”Su tutto il paese la depressione aleggiava come nebbia : ci mancava solo quella per opprimere ancor più gli spiriti; ce n’era un po’ persino in East Anglia. In tutta la nazione le famiglie commentavano le ultime notizie con frasi come “santo cielo”, “cosa potrà ancora capitarci?”, “io ci rinuncio”, “che si fottano”…. In tutto il paese ognuno incolpava qualcun altro per le cose che non funzionavano : i sindacati, il governo in carica, i lavoratori dell’automobile, i marinai, gli arabi, gli irlandesi, la propria indolente e incapace progenie, il sistema educativo. Nessuno sapeva di chi fosse in realtà la colpa ma quasi tutti si sforzavano, con poche giustificazioni, di lamentarsi di qualcuno”. Il regista Ken Loach aveva parlato, nel suo film quasi documentaristico “Family Life” (1971), della crisi di una ragazza anticonformista, cresciuta in una famiglia piccolo borghese, che vede frustrate tutte le sue aspirazioni e che, per questo, cade in depressione. Un film molto duro, ma anche un viaggio che il regista inglese volle intraprendere alla scoperta dell’origine della forma massima di infelicità umana : la follia, e la individua nell’alleanza perversa delle varie istituzioni sociali : la famiglia, la fabbrica, l’assistenza sociale, tutti “strumenti” che mirano a produrre “normalità e conformismo”. Contro questa “normalità e questo conformismo” si diressero con rabbia, aggressività e coraggio una parte dei giovani britannici. Londra appariva come uno specchio perfetto di quel periodo, il simbolo di una realtà difficile. Molte le aree ex industriali degradate ed in abbandono, molti gli spazi immobiliari vuoti, compresi edifici vittoriani inutilizzati o momentaneamente sfitti. Tutto ciò venne preso di mira dagli “squatters” che occupavano le case semplicemente cambiandone la serratura, dando nuova vita a zone degradate. Ricordava Joe Strummer nel documentario “Westway To The World” : “Nel 1974 c’erano file e file di case tutte abbandonate, sbarrate con assi da parte del Comune e lasciate imputridire. Per quale ragione, non lo so. C’erano orde di persone a Londra che non si potevano permettere di pagare l’affitto, almeno l’affitto che veniva richiesto. Quindi l’unica cosa da fare era occupare queste case abbandonate e viverci. Grazie a Dio questo è successo, perché, in caso contrario, non avremmo potuto mettere in piedi una band. Noi eravamo assolutamente squattrinati, in questo modo avevamo trovato un posto dove vivere ed un luogo in cui provare insieme. Abbiamo cominciato con i 101’ers con un amplificatore ed un microfono. Ed abbiamo costruito la nostra strumentazione”. C’è una parola che può in buona parte inquadrare questa “strana” situazione immobiliare londinese : speculazione. A partire dai primi anni ’70 si assistette ad un vero e proprio “boom” dei prezzi delle case. Questo causò ovviamente gravi problemi ai cittadini che avrebbero voluto comprare l’appartamento nel quale vivevano in affitto, e di contro offrì la possibilità ai proprietari di sfrattare l’affittuario lucrando successivamente sulla vendita dell’immobile, effettuata spesso a favore delle grandi agenzie immobiliari. Un comportamento diffuso che ebbe l’effetto di alterare, nel giro di qualche anno, il volto di alcuni distretti di Londra. Prima di riuscire a ricollocare palazzi ed appartamenti, i proprietari erano obbligati a lasciare vuoti e sfitti gli immobili per periodi di tempo che potevano essere anche considerevoli. La difficoltà economiche e la disperazione costrinsero intere famiglie a prendere decisioni radicali e stimolarono lo spontaneo senso di ribellione dei giovani verso l’appropriazione di ciò che veniva loro così impunemente sottratto. In breve tempo furono migliaia gli “occupanti” a Londra”, una vera e propria comunità giù per Walterton Road, Freston Road, Lancaster Road, Elgin Avenue, Chippenham Road e ,verso Brixton, St. Agnes Place, Villa Road, Heat Road. Per i giovani erano luoghi perfetti dove “rifugiarsi”, dove vivere le proprie esperienze lontano dai pregiudizi familiari (esattamente come fece Joe Strummer). “Ricorda : cercare di fermare lo squatting è come provare a marchiare una palla da golf unta e scivolosa” (All Lambeth Squatters, 1974). Il movimento degli squatters, nonostante la sistematica, chirurgica censura e demonizzazione dei mezzi di informazione e dell’establishment nei suoi confronti (a parte pubblicazioni tipo “International Times” e “Oz”), non fu cosa banale nella Londra di quel periodo. Mancava un po’ di organizzazione, questo sì, ma quando questa veniva trovata, come nel caso degli Elgin Avenue Squatters (1975), i successi contro la politica immobiliare nella capitale non mancarono, con conseguente rideterminazione delle condizioni abitative e “rialloggio” di molte famiglie sfrattate in una dimora permanente. “Il GLC (Greater London Council) aveva deciso di abbattere un centinaio di case accostate in Elgin Avenue : fu nel periodo intercorso tra la delibera e l’effettiva demolizione che in quei luoghi fiorì il movimento delle occupazioni. Si andava sul posto, si sfondava e si cambiava la serratura. Il possesso equivale quasi al diritto. Eravamo organizzatissimi”, ebbe ancora a dire Joe Strummer. Bisognerà però attendere fino al maggio del 1977 per veder nascere l’LSU (London Squatters Union) un collettivo più organizzato e determinato. Uno degli attivisti più appassionati del movimento fu Eric Mattocks, un “cracker” di squat davvero esperto, strenuo difensore dei senzatetto, noto anche per aver ripreso duramente nel ‘74 un giovane Woody Mellor ed i suoi amici dei 101’ers, per il loro vizio di lasciare l’immondizia accastata per giorni fuori dallo squat al 101 di Walterton Road. Qualcuno ha indicato negli squatters una sorta di “pionieri urbani : colonizzarono lo squallido deserto delle nostre città, e, come tutti i pionieri, determinarono una nuova cultura”. Quello che è certo è che la comunità degli squatters propose uno stile di vita comunitario all’interno di quartieri metropolitani, che vide al suo interno diversi esuli dai regimi dittatoriali sudamericani, che rifiutò la ripetitività alienante del lavoro, che fece in qualche modo una scelta politica anti-capitalista, allontanandosi in modo netto da tutti gli stereotipi e dalla sensazione di claustrofobia emanata dalla cultura britannica, dichiarando la propria estraneità rispetto la società del consumo di massa. Scelta radicale, scelta di libertà, un entusiastico salto nel buio nel giardino delle opportunità mai svelate. Il quadro era perfettamente delineato: da una parte l’opinione pubblica che chiede ordine e restaurazione, dall’altra una generazione con le spalle al muro, composta da giovani anarchici, gente proveniente dalla sinistra radicale, disillusi, studenti delle scuole d’arte, sopravvissuti hippy e squatters in cerca di ossigeno vitale, con sullo sfondo il colore grigio dello schermo televisivo : la tv ormai rappresentava il veicolo per eccellenza della cultura di massa, dominando in misura sempre più crescente il tempo libero degli inglesi. Nelle strade di Londra girava molta droga, in particolare anfetamina, non si sapeva bene cosa fare e dove andare, ma nel caos, una sfida libertaria, culturale e politica, anti-apatia, decisa a riprendere in mano il controllo del proprio destino, stava per essere lanciata partendo dal disconoscimento di quello che il proprio paese aveva rappresentato per secoli. “Non c’è alcun posto dove andare, non c’è niente da fare, le radio trasmettono per le casalinghe, tutte le leggi sono contro di noi”. (Joe Strummer, 1976). In terra d’Albione c’era una generazione pronta a mettere in piazza il vuoto ed i sensi di colpa di un ex potenza coloniale, la cui crisi non riguardava solo l’aspetto economico ma l’intero modello di società . Buonanotte vecchia Inghilterra, il primo atto del “magnifico fallimento” idealizzato da quel geniaccio di Malcolm McLaren stava per andare in scena. Ma prima è necessario fermare per un attimo il tempo alla metà degli anni ‘70, giusto per inquadrare un fenomeno tutto inglese da non sottovalutare in questo contesto. Il cosiddetto “Pub Rock”. |
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