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Nel febbraio del 1964, allo scoccare dei 19 anni d'età, aveva
un principesco stipendio di tre sterline la settimana, un completo di
lamé senza colletto e tutti i ragazzi cantavano la sua canzone.
Robert Nesta Marley poteva sedersi sulle scale della casa di Trenchtown
con una certa soddisfazione. Non erano mai girati tanti soldi, in quella
casa. E tutti i ragazzi cantavano Simmer Down. Sir Clemence Dodd gli
aveva messo a fianco la sezione fiati del momento, gli Skatalites, che
erano famosi in tutta l'isola ed erano stati persino "fuori".
Mille copie della canzone si erano volatilizzate in pochi giorni. Tutta
la Giamaica cantava Simmer Down, state calmi!, una storia di teste calde
e tasche vuote. Si diceva che quella canzone con quelle parole incomprensibili,
strascicate, pacifiche ma minacciose, preoccupasse la buona borghesia
fresca d'indipendenza (ma con la Regina d'Inghilterra a capo dello Stato)
all'ora del tè.
Scemenze: per Bob era solo la solita solfa di mamma Cedella: "State
calmi, basta far casino!". Saltellava niente male, la canzone.
Era uno ska veloce, con un delicato assolo di trombone nel mezzo e il
tormentone: state calmi! Per i rude boys, le bande, i disgraziati, gli
attaccabrighe di Giamaica - per tutti quelli a cui si chiedeva di "stare
calmi" - era diventato un inno. Era nella loro lingua, infatti,
patois giamaicano e inglese impastati da vocali aperte o chiuse a piacere
- simmadaaaaw - la lingua del ghetto, non proprio l'inglese, la lingua
dei sufferah, dei povericristi. Ecco che ora la mandava la radio: state
calmi
Il vestito di lamé era dorato, solo per le serate.
VENT'ANNI DOPO.
Mentre si festeggia si celebra il ventennale della morte di Bob Marley
- simbolo nazionale e identità collettiva indiscussa - l'uomo
più famoso e detestato di Giamaica è un certo Ainsworth
Gidden. Una notte del luglio scorso, rastrellò una cinquantina
di barboni, senza fissa dimora, piccoli spacciatori d'erba, nullafacenti
e rude boys, li caricò su un paio di camion, li bastonò
ben benino e li abbandonò a cinquanta miglia da Montego Bay,
fuori dalle palle. Per la precisione fuori dalla "porta buona"
della Giamaica, quella dove un milione di turisti atterrano ogni anno
per fumare erba e a bere rum, it's a paradise, man! Ora Gidden fa i
nomi: il sovrintendente sapeva, questo o quel riccone del posto erano
d'accordo. Tutti leggono il Gleaner per sapere chi è stato, questa
volta, a calpestare i sufferah.
POVERA GENTE.
Mai come nel caso della Giamaica le statistiche mentono: gli oltre 1.400
dollari di reddito pro capite sono una media beffarda in un posto dove
la ricchezza è cosa di pochissimi, il ceto medio è minoranza
e tutti gli altri sono poveri. Amnesty International ha qualcosa da
ridire sulla polizia e sui suoi metodi, la pena di morte (impiccagione)
non è applicata da anni, ma i condannati vivono praticamente
sotto tortura. Tristi tropici, insomma, dove non è cambiato molto
dai tempi in cui Bob Marley cantava Simmer Down con un vestito di lamé
e faceva le serate spostandosi in camion insieme ai suoi Wailers. A
proposito di questo "state calmi", che vale oggi come allora,
le cronache riportano dell'ennesimo appello dell'onorevole primo ministro
Percival Patterson: "Chiedo a tutti i benpensanti, a tutte le organizzazioni,
a tutti i gruppi, a tutti i settori della società di aiutarci
a bandire il crimine e tutti gli altri tipi di indisciplina e irregolarità,
a isolare i delinquenti e ricostruire la nostra società in modo
che la legge e l'ordine prevalgano
". Simmer Down
DAL
CARIBE ALL'AFRICA. Che
i sufferah siano ancora sufferah e i rude boys ancora rude boys, e dunque
che non sia cambiato quasi niente in Giamaica in quasi cinquant'anni
non spiega granché. Turisti bianchi, banane, bauxite, zucchero
e caffè, nient'altro per vivere. Marley, la star planetaria,
l'unica che è arrivata a illuminare persino l'Africa, è
entrato così nell'immaginario giamaicano come un padre della
patria. Per un Paese del Caribe avere un'identità nazionale che
non risalga ai tempi delle cannonate dei pirati è una sciccheria
rara. A Cuba l'ha data Fidel. Alla Giamaica un musicista nero, di religione
rasta. Nei piccoli altarini, nelle pitture mistiche, nelle insegne dei
negozi, nelle rivendite di magliette per turisti, nelle botteghe dove
si fanno treccine e massaggi, la faccia di Bob compare sempre. In forma
di santino, accostata alle immagini del Negus Neghesti Ras Tafari Heilé
Selassié, ai colori rasta, accanto ai leoni, a sagome dell'Africa
stilizzate come pitture rupestri. Elencando a ruota libera si sta parlando
di un idolo, di un'icona, di "uno che ce l'ha fatta", di un
capo ribelle, di un predicatore mistico, di uno che si faceva rispettare,
di un grande musicista e persino di un nume tutelare e di una figura
politica piena di carisma. L'uomo che convinse la sua gente a smettere
di spararsi addosso, che liberò l'Africa dal colonialismo e che
portò la Giamaica in tutto il mondo. Ce n'è abbastanza
per farne un eroe nazionale. Ma il mondo? Come andò con il resto
del mondo?
L'ADESIVO.
Per
qualsiasi uomo adulto occidentale di oggi, o almeno per molti, Bob Marley
è un adesivo sul cofano della Diane, qualcosa che sembra un ricordo
dei vecchi tempi, quando anche Clinton si faceva le canne, e chi non
l'ha fatto? Ribellismi perduti e odore di ganja. Certo anche questo
è Marley. L'Europa scoprì e consumò questa medicina,
questo massaggio musicale, prima dell'America, se ne inebriò,
se ne lasciò dondolare. Erano, si pensava e si credeva, buone
canzoni d'amore e ribellione, che però non si capivano appieno:
non si era negri, dopotutto. Si finiva per collegarle a belle spiagge,
mari azzurri, a posti da cartolina scambiati per paradisi. Chi capì
bene, e al volo, fu il proletariato inglese. Poveri, punk, emarginati,
gente che dai ghetti del nord sapeva spremere senso dalla lingua dei
ghetti del sud. I Clash, suprema banda politica, mise molto Marley nella
sua musica. E la miscela risultò esplosiva: stava succedendo
qualcosa. Dopo la rivolta nera di Notting Hill, Strummer cantava "voglio
una rivolta bianca" e metteva tra le sue chitarre un po' di quel
tocco in levare che ha fatto spumeggiare il reggae ovunque. Anche nell'impero
delle periferie (e dopo, in quello della Thatcher), i sufferah non mancavano.
A BABYLON. Santo, ribelle predicatore.
Come gli venne in mente di stabilire il quartier generale della Tuff
Gong in Hope Road, una via residenziale della Kingston-bene, di preciso
non si sa. La casa era di Blackwell, il suo pigmalione "occidentale",
ma la tribù di Marley ne prese possesso pieno, con i vicini,
tra cui il primo ministro, inorriditi. Musica, partite a pallone, ragazze,
droga, scazzottate. Il teppista, il rude boy, era salito ai quartieri
alti. Ascoltava come un patriarca le rogne di tutti, distribuiva dollari,
suonava e giocava a pallone. Aveva appena trent'anni. Ogni tanto andava
a far visita agli amici dj della Jamaican Broadcasting Corporation.
Portava i nuovi singoli, quelli che poi avrebbero sbancato nelle classifiche
di Billboard. Quando i dj programmarono la versione di I shot the sheriff
cantata da Clapton si presentò minaccioso con una mazza da baseball
e qualche amico fidato del ghetto. Va bene star mondiale, ma la Giamaica
è la Giamaica, baby. Pura Babylon, non si va per il sottile.
QUALCHE FUMATA. In ogni caso è
appurato: un giovane occidentale, uno che calza scarpe da tennis che
manterrebbero una famiglia giamaicana per un paio di mesi non ne sa
molto, di misticismo. Gli resta appena il fumo della marijuana, che
Marley, peraltro pubblicizzò sempre e ovunque. Meglio di niente,
direte. Ma nel vero misticismo di Marley, nella sua fede rasta, nel
suo straordinario messaggio di pace, non è facile entrare. Intorcinato
tra leggende africane, predicatori come Marcus Garvey che promettevano
il ritorno in Africa, la guida morale di Heilé Selassié,
dio in terra, e poi altre credenze e superstizioni e fedi sincere, il
credo, il senso di Marley non può che sfuggire, da qui. E si
intuisce, immenso, nella pienezza della sua musica, quella sì
densa di sensi e messaggi, di preghiere laiche, nenie religiose e good
vibrations modellate sulla stessa indolenza che gli dei hanno ai tropici.
Ipnosi.
PROFETA
NERO.
Per l'Africa fu un'altra cosa. Lì Marley era un profeta africano,
un combattente della libertà. Sulle colline dell'ex Rhodesia
erano le radio clandestine dell'African National Congress, del Fronte
di Liberazione, a mandare le canzoni di Marley. Africa Unite e Zimbabwe,
roba così, che saltellava reggae, e diceva cose come l'Africa
agli Africani! Ogni uomo dev'essere padrone del proprio destino! Fischiavano
le pallottole. Fischiarono i lacrimogeni a Salisbury, al Rufaru Stadium,
il 17 aprile del 1980. Lì si proclamava l'indipendenza dello
Zimbabwe, si cancellava la vergogna rhodesiana, e allo stadio arrivarono
in milioni, a cantare e a spingere e a festeggiare, e a essere dispersi
e a tornare alla carica ancora. Africa Unite, cantavano e inneggiavano
al Messia della Musica. Le ultime guerre anticoloniali, quel flebile
passaggio che portò dall'imperialismo alla globalizzazione, tempi
di illusioni feroci e di marxismi neri, portarono impresse le note di
quel Marley, l'ultimo Marley, il combattente, il leader, il leone di
Zion che sconfigge Babylon a chitarrate sulla capoccia.
COLPA DEL CALCIO. Si era ammalato
di cancro nel modo più cretino del mondo. Un incidente a un dito
del piede durante una partita a pallone. Non aveva voluto curarsi subito,
né dopo, quando si era ancora in tempo, perché "un
rasta non permette che il suo corpo sia tagliato a pezzetti". Il
cancro marciò, camminò, fece strada. Arrivò ai
polmoni, al cervello. Al Rufaru Stadium, mentre con la sua chitarra
officiava il rito di un'altra indipendenza africana, sapeva di non avere
più tempo. Ma quelle cose rivoluzionarie, quegli inni alla libertà
li avrebbe voluti cantare anche a casa, tornare in Giamaica con un sogno
per le imminenti elezioni: un governo nero (qualcuno sostiene anche
marxista) per sollevarsi da Babylon, un governo per i sufferah.
Non fece in tempo. Suonò a Milano, allo stadio di San Siro, che
dondolò nel fumo azzurro per ore, e - dopo - per giorni. Suonò
ancora in America. Suonò l'ultimo concerto a Pittsburgh che quasi
non si reggeva in piedi. Cantò Redempion Song da solo, al buio,
in un angolo del palco, e tutti piansero. Morì al Cedars of Lebanon
Hospital di Miami l'11 maggio del 1981, all'età di 36 anni. Il
20 maggio fu esposto alla National Arena di Kingston e tutta la Giamaica
gli passò davanti. Il primo ministro lesse un'orazione funebre
in Parlamento, gli conferì la Croce al Merito che ne faceva non
più un cantante morto, ma il cadavere vestito in jeans dell'Honorable
Sir Robert Nesta Marley. Lo seppellirono - dopo un corteo di ottanta
chilometri dove ondeggiavano immagini sacre del Negus e del leone di
Zion - accanto alla sua casa di Nine Miles, nella contea di St.Ann,
in campagna. Se ci vai ora, rude boys marchiati nike e ray-ban ti vendono
canne di dimensioni mostruose e ammiccano: "Bob Marley size, man!".
Ti vendono magliette, si offrono come guida, chiedono se vuoi bere,
o scopare e se gli dai qualche dollaro. I sufferah con le loro lacrime
e i rude boys con i loro traffici si prendono le briciole di "quel
che ci ha lasciato Bob": la solita Babylon e qualche canzone che
parla della speranza di uscirne. Amen.
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