Non bisogna avere paura di dire che l'avevamo detto. Il movimento contro
la guerra in Iraq è stato, in Italia, il più possente
e insieme il più diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno
fatto grande convergevano su alcune, fondamentali assunzioni : si trattava
di una guerra senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente
illegale; sbagliata perché pensata sul'ipotesi che fosse possibile
esportare con la forza valori e democrazia; inutile perché non
avrebbe risolto alcun problema, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo,
pericolosa perché avrebbe aggravato quelli esistenti, in particolare
moltiplicando i focolai di terrorismo. Tutto ciò che era stato
previsto si è , purtroppo, verificato. Ed è tanto più
triste constatarlo dopo che molti nostri soldati sono caduti in combattimento.
Poiché ciò dice che quei morti potevano essere risparmiati.
Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano
canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una
coltre di retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo
di sangue freddo.
Riflettere
significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici trappole che
molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle quali
è la tesi secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq,
in queste ore, sia terrorismo fondamentalista islamico importato dall'esterno,
farina del sacco di Bin Laden.
A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che
degli USA hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo
terrorista, occorre dire a gran voce che essa è comunque falso.
Ridurre tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi gli occhi
e orecchie ed illudersi che esso possa essere domato con un incremento
di forza militare.
In realtà è evidente la presenza, accanto, insieme, intrecciata
con il terrorismo,di una potente, diffusa resistenza popolare contro
le truppe d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione
sarà, per un tempo imprevedibile,accompagnato da un incremento
della reazione, cioè da altro sangue, altro terrorismo, altre
morti, irachene e straniere. Sbagliare la valutazione significa sacrificare
inutilmente altre vite.
Ritirarsi
è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato
dalla dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla
presenza italiana. Perfino il Giappone, che aveva promesso truppe, è
tornato sulla sua decisione. La Corea del Sud riduce il suo contingente.
L'India rifiuta, la Turchia rifiuta. Russia, Germania e Francia restano
fuori. Tutti vili?
In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare
rotta, subito, senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza
sta emergendo perfino a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma
potremmo presto trovarci di fronte a un abbandono anticipato del campo
perfino da parte degli Stati Uniti. Anticipato significa ancor prima
che una qualsiasi soluzione di autogoverno iracheno sia stata messa
in piedi.
S'impone un'iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio
positivo al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e
dalla guerra, le cui coordinate sono visibile fin d'ora e che dovrebbero
essere subito sperimentate : consegna alle Nazioni Unite della responsabilità
politica; ritiro annunciato da subito e gradualmente eseguito di tutte
le truppe di occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di
occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di paesi che non
hanno preso parte all'aggressione militare anglo-americana; progressivo
inserimento di forze militari e di polizia dei paesi arabi e musulmani.
Difficile?
Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili
le esponga.
Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione
e il dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze
di un'opposizione bussola, hanno modificato in senso negativo, inutile
nasconderlo, il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi,
pur da prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato
tra l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e
senza prospettiva, di una presenza italiana in Iraq. Il governo, cieco
come prima, dichiara di voler procedere peggio di prima.
Prima
che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il
paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste, e giustamente, appese
a mostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto
finita. Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i colori
si sono stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva
ancora messe le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale,
solidale, democratico. Moltiplicandolo, nell'interesse della ragione
e della pace.