“CLASH – SHEA STADIUM 1982 :
SPLENDORE E CREPUSCOLO DI UNA VERA ROCK’N’ROLL BAND”

Articolo di Mauro Zaccuri sui celeberrimi concerti dei Clash
allo Shea Stadium di NYC il 12-13 Ottobre 2002


“CLASH – SHEA STADIUM : SPLENDORE E CREPUSCOLO DI UNA VERA ROCK’N’ROLL BAND”
“Fu divertente suonare Career Opportunities allo Shea Stadium. Chi l’avrebbe mai pensato qualche anno prima, quando la scrivemmo a Camden Town che l’avremmo poi suonata allo Shea Stadium ?? Sono queste le cose che fanno il mondo così interessante, ed anche la musica”. (un ironico Joe Strummer in “Westway To The World”). Le parole di Strummer rimandano a quello che simbolicamente rappresentò l’apice del successo commerciale dei Clash, un successo così fragoroso tale da creare i presupposti per il dissolvimento della band stessa. Paradossale. Erano in procinto di diventare un gruppo dal successo planetario sul modello degli Stones o degli Who, ma erano i Clash, e le cose non procedettero come in un film a lieto fine.

Rewind
Nel 1982, dopo l’uscita di “Combat Rock”, il rosso era finalmente alle spalle. Era dai tempi della firma con la CBS che i Clash non avevano una situazione finanziaria in pareggio. Da quel momento in poi, con il tour americano imminente, avrebbero potuto finalmente fare soldi, non per ripianare debiti maturati nei confronti della casa discografica, ma per loro stessi.
C’era un solo problema : i Clash in quel momento non avevano batterista, avendo estromesso dalla band il magnifico Topper Headon nel maggio 1982, a causa dei suoi problemi di droga giunti ormai ad un livello insostenibile. La sostituzione di Headon, dolorosissima per tutti i componenti della band, “fu l’inizio della fine dei Clash” come ebbe a sentenziare anni dopo Robin Banks. Il gruppo prese la scorciatoia e chiamò Terry Chimes, il batterista che aveva suonato nel ’77 nel primo album “The Clash”.In assoluto la scelta migliore in quel momento. Chimes conosceva la band, conosceva il repertorio dei primi Clash, ed era uno che imparava in fretta.Niente a che vedere con il talento purissimo di Topper Headon, ma un batterista solido ed un ragazzo a posto. Il tour americano denominato “Down The Casbah Club” cominciò il 29 maggio con una data ad Asbury Park nel New Jersey. Furono una serie di concerti ben riusciti, nei quali Joe Strummer sfoggiò per la prima volta la sua capigliatura “mohicana” , influenzata dal personaggio di Travis Bickle interpretato da Robert De Niro nel film Taxi Driver, nonché dalle nuove punk band inglesi di quel periodo, tipo gli Exploited.
Tutto bene dunque ?Un nuovo batterista, una resa live di buon livello, ed un album, “Combat Rock”,le cui vendite stavano ben procedendo, soprattutto negli States. Non proprio,c’era un clima di convivenza forzata all’interno dei Clash che risaliva alla fase finale del mixaggio di Combat Rock, quando i sedici – diciassette brani curati da Mick Jones che componevano le registrazioni di “Rat Patrol From Fort Bragg” (era il titolo provvisorio di “Combat Rock”) vennero profondamente rivisitati dopo che Strummer (ed il resto del gruppo) aveva manifestato il proprio disappunto verso le atmosfere elettroniche e dance presenti nelle tracce. Il manager Bernie Rhodes (rientrato dopo una separazione di un paio d’anni) decise di affidare il mix finale a Glyn Johns, fonico rodato che aveva già lavorato con Small Faces, Who, Stones e Beatles (“Get Back”). Dopo il suo intervento il disco riuscì a prendere una sua fisionomia pressoché definitiva, ben diversa da quella originale voluta dal chitarrista solista dei Clash. Glyn Johns ridusse il numero dei brani, la loro durata, le introduzioni, gli orpelli elettronici, consegnando al disco una struttura decisamente più rock, con basso e batteria in evidenza, più congeniale ai voleri di Strummer e probabilmente anche più vicino alla sensibilità del grande pubblico americano. Gli equilibri all’interno del gruppo si erano definitivamente modificati.

Shea Stadium, American rock’n’roll
“Non ero davvero a mio agio nei grandi stadi, ma il tour di supporto agli Who fu davvero una buona cosa per noi. Abbiamo venduto un sacco di dischi lo sai ? E probabilmente abbiamo fatto breccia in diversi loro fan. Quindi non ci dobbiamo lamentare. Siamo andati per fare un lavoro serio. Nessun intrallazzo. Siamo usciti negli stadi ed abbiamo suonato, cercando di non essere particolarmente turbati da quella massa umana. Era il pubblico degli Who, non il nostro. Ma abbiamo cercato di suonare bene”.
(Un sincero Mick Jones, a Kris Needs – dicembre 1982)

I Clash tornarono negli States per un secondo tour appena sei giorni dopo aver concluso quello inglese. Era il “Combat Rock Tour”, che ebbe inizio l’8 Agosto 1982 a Morrison, Illinois, e che doveva concludersi a settembre. Le location prescelte per il tour erano al solito di medio-piccole dimensioni, perché la band voleva vedere “la parte bianca dell’occhio dei propri fan”, voleva cioè essere in contatto e comunicare il più possibile con il proprio pubblico. Era stato il leit motive di tutta la loro carriera, una scelta consapevole e di primaria importanza.
Ma la chiamata degli Who per fare da supporto al loro tour negli stadi americani tolse di mezzo questo caposaldo che aveva resistito in precedenza a diverse pressioni. La situazione non era affatto semplice. I Clash avevano sempre evitato i grandi raduni rock : speculazioni sui biglietti, scarsa qualità del sound, prezzi folli per i generi alimentari venduti negli stadi.
La proposta arrivò direttamente dall’agente americano degli Who. Fu Pete Townshend a volerli nel tour : “Ero un loro grande fan, per questo li volli ad aprire i nostri concerti. Erano una specie di eco delle prime rock band inglesi come gli Who. Erano positivi, solidali, affettuosi e combattivi in un modo che me li faceva sentire familiari. Li trovavo davvero una band stimolante, una grande band”.
I Clash si riunirono e alla fine decisero per il si. Kosmo Vinil ci dipinse sopra la storia delle due band della West London che simbolicamente si passano il testimone, ma la verità è molto più banalmente racchiusa nel fatto che la band voleva diventare “più grande”, suonare davanti a più persone possibili, ampliare la propria audience. Scelsero per il si e si portarono dietro le contraddizioni conseguenti. Tutto potrebbe essere sintetizzabile affermando che i Clash hanno provato a competere al più alto livello con il loro modo d’essere e la loro attitudine, hanno provato a giocarsi la partita con le loro armi. Volevano il successo della band, ma non lo inseguirono esclusivamente per soldi, la musica ed i fan venivano sempre al primo posto. In un mercato di ciarlatani, imbroglioni e manipolatori, i Clash erano una cosa il più vicino possibile alla verità.
“Non siate preoccupati della parola paradosso” disse Strummer al NME al 1982, “noi non siamo un altro gruppo come i Boston o gli Aerosmith. Noi abbiamo tante contraddizioni da buttare sul tavolo. Stiamo provando ad essere il più grande gruppo nel mondo, ma non abbiamo mai voluto essere rispettabili. Può essere che le due opzioni non possano coesistere, ma noi ci stiamo provando”.

Il doppio concerto allo Shea Stadium di New York (12 e 13 Ottobre 1982) venne a ragione considerato il clou di questo tour di supporto agli Who, che iniziò effettivamente il 25 settembre allo JFK Stadium di Filadelfia. Lo Shea Stadium si trova nel Queens, ed ospitava le partite di baseball dei New York Mets. Grazie alla sua capacità di contenere oltre 55.000 persone, lo Shea Stadium agli occhi degli americani era visto soprattutto come lo stadio che lanciò l’era dei concerti oceanici , a cominciare dai Beatles nel 1965. Joe Strummer e compagnia decisero di arrivare tutti insieme, ed in modo roboante, allo Shea Stadium il 13 ottobre, seduti su una Cadillac bianca decappottabile del 1956 noleggiata da Vinil. Le immagini dell’arrivo dei quattro rockers inglesi allo stadio sono immortalate dalle immagini girate da Don Letts per l’occasione, ed è difficile immaginare qualcosa di lontano da un divismo da rockstar guardando quelle sequenze. Ma nell’immaginario Clash anche quella scelta era sempre dettata dalla volontà di riaffermare la propria differenza e la loro imprevedibilità. E’ utile ad esempio raccontare come il gruppo arrivò allo Shea Stadium nella data precedente del 12 Ottobre. A parlare è Roger Goodman, in quel momento addetto al merchandise dei Clash : “La band era d’accordo di andare in bus allo stadio direttamente dal loro hotel di Manhattan. La regola era quella che se un componente perdeva il bus sarebbe andato da solo al concerto. Io e Joe perdemmo il bus. Gli chiesi se voleva prendere un taxi, ma lui mi rispose che voleva andare in metropolitana. Così prendemmo la metropolitana e lui si portò dietro un grande registratore con cassette di musica reggae. Nel corso del viaggio radunammo intorno a noi oltre 300 persone che Joe invitò al concerto, anche se solo io e lui avevamo il pass per il backstage. Quando arrivammo davanti alla sicurezza dello stadio Strummer disse che se non avessero fatto entrare tutti i ragazzi che erano con noi, lui non avrebbe suonato. Dopo un po’ di tempo arrivarono i pass per tutti ”. Retaggi del passato ?? No, comportamenti naturali, che erano insiti da sempre nel personaggio e nella band.

“Niente baseball questa notte, niente football. Quello che ascolterete è un piccolo pezzo di quello che sta accadendo a Londra in questo momento. Da Ladbroke Grove, Londra W10, The Clash !!!”. Fu così che Kosmo Vinil introdusse a gran voce i Clash allo Shea Stadium. Faceva abbastanza freddo e Terry Chimes lo disse a Strummer che rispose : “Si lo so, ma questa sera dovremo dimostrare di essere dei duri, noi non ci preoccupiamo del freddo”. L’atmosfera della gang di strada inglese che sfida il grande pubblico americano era cosa fatta. Una serata uggiosa, qualche Union Jack che sventolava, ed una marea di gente di fronte ad un gruppo che aveva cominciato a suonare punk nel 1976 al Black Swan di Sheffield. “Welcome to the Casbah Club” disse Joe Strummer e poi partì l’attacco micidiale di “London Calling”. Nonostante tutto la resa live dei Clash era sempre di ottimo livello, anche se, come detto, lo Shea Stadium non era certo il luogo ideale per un loro concerto. Paul Simonon : “Mi sentivo un po’ come un mimo, c’erano un sacco di persone lì. Gli spettatori non erano vicini al palco, quindi non c’erano le solite reazioni del pubblico ai nostri concerti, anche se fu fantastico in ogni caso. Nei club il gruppo ed il pubblico si alimentano a vicenda”.
Sul palco dissapori e conflitti latenti sembravano scomparire. I Clash si presentarono con look militare ed anfibi per tutti, Joe Strummer sfoggiò il cappello con pelo di procione alla Davy Crockett ed occhiali Ray Ban, Mick Jones e Paul Simonon si muovevano continuamente sul palco creando i presupposti per un riuscito live-act. Cinquanta minuti per un set molto solido (registrato da Glyn Johns), con brani provenienti un po’ da tutta la produzione Clash . “Sono stati grandi” disse Townshend “sono riusciti a domare la folla dello stadio molto meglio di quanto avessero fatto i Pretenders nel tour precedente”. Non ci voleva molto ad immaginarlo, imparagonabile lo spessore dei Clash con la band di Chrissie Hynde. I Clash erano al top. I quattro rockers dalla West London avevano scalato il mondo ed avevano conquistato l’America ed il suo mercato, riuscendo ad essere sempre qualche anno avanti rispetto agli altri, basti pensare a come avevano stretto i legami con i nuovi punk del pianeta : i rappers dei ghetti americani. Probabilmente in quel momento avrebbero potuto chiedere ed ottenere il mondo, ma i Clash erano una band vera e delle persone vere, con il loro carico di debolezze e sensibilità.

The Clash Not For Sale
I Clash non sono in vendita, era la scritta che campeggiava sullo striscione esibito sul palco dello US Festival di San Bernardino il 28 maggio 1983 (ultimo concerto dei Clash con Mick Jones). Joe Strummer : “Quando Rock The Casbah è diventato un successo di quella portata in America, ho intravisto il pericolo di diventare una sorta di ribelle di professione”, ed ancora “Stavamo diventando una barzelletta, eravamo sinceri quando lottavamo, ma quando siamo arrivati a quel livello di fama più alto ho pensato che dovevamo darci un taglio. Se avessimo fatto qualche altro singolo di successo come quello, forse avremmo comprato delle case in Toscana e dei jet personali. Ma sarebbe stato disonesto”. Non è usuale sentire questi discorsi da una rockstar, ed in effetti Joe Strummer non era la solita rockstar. Il dilemma era cosa fare di tutto quel successo, che tipo di direzione prendere e con quale credibilità. Probabilmente i Clash avrebbero dovuto cambiar pelle, ed anche la faccia. Oppure farla finita, come puntualmente avvenne. La band comunicava sempre meno al proprio interno e fu Mick Jones a farne le spese quando venne espulso dal gruppo nel settembre 1983. Non è il caso di perdere tempo per spiegare quella che fu una clamorosa e “tombale” decisione, e neppure il caso di divagare fra le psicologie dei vari Strummer, Jones o del manager Bernie Rhodes. In verità i Clash non esistevano più da qualche mese. E quello che seguirà dopo Mick Jones non è configurabile come Clash. Probabilmente ha ragione la fotografa Pennie Smith quando disse : “Seppure inconsciamente, i membri del gruppo sapevano che avrebbero dovuto separarsi dopo aver conquistato l’America”. Si erano spinti al massimo delle loro possibilità in soli 7 anni, e per proseguire avrebbero dovuto fare scelte che non avevano (per fortuna) nel DNA. Per chiudere, ancora Joe Strummer a Chris Salewicz sei anni dopo lo Shea Stadium : “Se c’è un messaggio nella musica, questo si esprime nel modello adottato nei concerti da parte di una band. Esso deve essere in qualche modo connesso alla vita reale che la gente conduce. Le star non conducono una vita reale, ed è per questo che sono felice del fatto che ci siamo fermati e che tutto sia crollato. Perché non avrei potuto vedere davvero alcun futuro davanti a noi se fossimo diventati come gli Who. Ho guardato davvero da vicino questi concerti allo Shea Stadium e all’Oakland Coliseum, perché sarebbero potuti diventare i posti nei quali avremmo suonato normalmente. Ma ho pensato, bene, cos’è tutto questo ?? Questa è una cosa che non va da nessuna parte !! Non è vita. Salire sul palco e cantare canzoni mentre tutto diventava più grande e scivola verso il nulla. Per questa ragione mi sono sentito via via sempre peggio. Tutto ha a che fare con il tipo di brani che stai cantando. Andava bene quando noi eravamo parte del pubblico, parte di una situazione, di un movimento. Come all’Electric Circus a Manchester, in qualche modo c’era verità quella sera. Ma quando tutto è diventato migliaia di chilometri distante da questo tipo di cose, io ho cominciato a volerne uscire. Tutto diventa una parodia. Forse c’è davvero un certo lasso di tempo nel quale si possono suonare dei brani prima che tutto diventi senza senso. O addirittura ridicolo”.

Mauro Zaccuri