“CLASH – SHEA STADIUM : SPLENDORE E CREPUSCOLO DI UNA VERA
ROCK’N’ROLL BAND”
“Fu divertente suonare Career Opportunities allo Shea Stadium.
Chi l’avrebbe mai pensato qualche anno prima, quando la scrivemmo
a Camden Town che l’avremmo poi suonata allo Shea Stadium ?? Sono
queste le cose che fanno il mondo così interessante, ed anche
la musica”. (un ironico Joe Strummer in “Westway To The
World”). Le parole di Strummer rimandano a quello che simbolicamente
rappresentò l’apice del successo commerciale dei Clash,
un successo così fragoroso tale da creare i presupposti per il
dissolvimento della band stessa. Paradossale. Erano in procinto di diventare
un gruppo dal successo planetario sul modello degli Stones o degli Who,
ma erano i Clash, e le cose non procedettero come in un film a lieto
fine.
Rewind
Nel 1982, dopo l’uscita di “Combat Rock”, il rosso
era finalmente alle spalle. Era dai tempi della firma con la CBS che
i Clash non avevano una situazione finanziaria in pareggio. Da quel
momento in poi, con il tour americano imminente, avrebbero potuto finalmente
fare soldi, non per ripianare debiti maturati nei confronti della casa
discografica, ma per loro stessi.
C’era un solo problema : i Clash in quel momento non avevano batterista,
avendo estromesso dalla band il magnifico Topper Headon nel maggio 1982,
a causa dei suoi problemi di droga giunti ormai ad un livello insostenibile.
La sostituzione di Headon, dolorosissima per tutti i componenti della
band, “fu l’inizio della fine dei Clash” come ebbe
a sentenziare anni dopo Robin Banks. Il gruppo prese la scorciatoia
e chiamò Terry Chimes, il batterista che aveva suonato nel ’77
nel primo album “The Clash”.In assoluto la scelta migliore
in quel momento. Chimes conosceva la band, conosceva il repertorio dei
primi Clash, ed era uno che imparava in fretta.Niente a che vedere con
il talento purissimo di Topper Headon, ma un batterista solido ed un
ragazzo a posto. Il tour americano denominato “Down The Casbah
Club” cominciò il 29 maggio con una data ad Asbury Park
nel New Jersey. Furono una serie di concerti ben riusciti, nei quali
Joe Strummer sfoggiò per la prima volta la sua capigliatura “mohicana”
, influenzata dal personaggio di Travis Bickle interpretato da Robert
De Niro nel film Taxi Driver, nonché dalle nuove punk band inglesi
di quel periodo, tipo gli Exploited.
Tutto bene dunque ?Un nuovo batterista, una resa live di buon livello,
ed un album, “Combat Rock”,le cui vendite stavano ben procedendo,
soprattutto negli States. Non proprio,c’era un clima di convivenza
forzata all’interno dei Clash che risaliva alla fase finale del
mixaggio di Combat Rock, quando i sedici – diciassette brani curati
da Mick Jones che componevano le registrazioni di “Rat Patrol
From Fort Bragg” (era il titolo provvisorio di “Combat Rock”)
vennero profondamente rivisitati dopo che Strummer (ed il resto del
gruppo) aveva manifestato il proprio disappunto verso le atmosfere elettroniche
e dance presenti nelle tracce. Il manager Bernie Rhodes (rientrato dopo
una separazione di un paio d’anni) decise di affidare il mix finale
a Glyn Johns, fonico rodato che aveva già lavorato con Small
Faces, Who, Stones e Beatles (“Get Back”). Dopo il suo intervento
il disco riuscì a prendere una sua fisionomia pressoché
definitiva, ben diversa da quella originale voluta dal chitarrista solista
dei Clash. Glyn Johns ridusse il numero dei brani, la loro durata, le
introduzioni, gli orpelli elettronici, consegnando al disco una struttura
decisamente più rock, con basso e batteria in evidenza, più
congeniale ai voleri di Strummer e probabilmente anche più vicino
alla sensibilità del grande pubblico americano. Gli equilibri
all’interno del gruppo si erano definitivamente modificati.
Shea
Stadium, American rock’n’roll
“Non ero davvero a mio agio nei grandi stadi, ma il tour di supporto
agli Who fu davvero una buona cosa per noi. Abbiamo venduto un sacco
di dischi lo sai ? E probabilmente abbiamo fatto breccia in diversi
loro fan. Quindi non ci dobbiamo lamentare. Siamo andati per fare un
lavoro serio. Nessun intrallazzo. Siamo usciti negli stadi ed abbiamo
suonato, cercando di non essere particolarmente turbati da quella massa
umana. Era il pubblico degli Who, non il nostro. Ma abbiamo cercato
di suonare bene”.
(Un sincero Mick Jones, a Kris Needs – dicembre 1982)
I
Clash tornarono negli States per un secondo tour appena sei giorni dopo
aver concluso quello inglese. Era il “Combat Rock Tour”,
che ebbe inizio l’8 Agosto 1982 a Morrison, Illinois, e che doveva
concludersi a settembre. Le location prescelte per il tour erano al
solito di medio-piccole dimensioni, perché la band voleva vedere
“la parte bianca dell’occhio dei propri fan”, voleva
cioè essere in contatto e comunicare il più possibile
con il proprio pubblico. Era stato il leit motive di tutta la loro carriera,
una scelta consapevole e di primaria importanza.
Ma la chiamata degli Who per fare da supporto al loro tour negli stadi
americani tolse di mezzo questo caposaldo che aveva resistito in precedenza
a diverse pressioni. La situazione non era affatto semplice. I Clash
avevano sempre evitato i grandi raduni rock : speculazioni sui biglietti,
scarsa qualità del sound, prezzi folli per i generi alimentari
venduti negli stadi.
La proposta arrivò direttamente dall’agente americano degli
Who. Fu Pete Townshend a volerli nel tour : “Ero un loro grande
fan, per questo li volli ad aprire i nostri concerti. Erano una specie
di eco delle prime rock band inglesi come gli Who. Erano positivi, solidali,
affettuosi e combattivi in un modo che me li faceva sentire familiari.
Li trovavo davvero una band stimolante, una grande band”.
I Clash si riunirono e alla fine decisero per il si. Kosmo Vinil ci
dipinse sopra la storia delle due band della West London che simbolicamente
si passano il testimone, ma la verità è molto più
banalmente racchiusa nel fatto che la band voleva diventare “più
grande”, suonare davanti a più persone possibili, ampliare
la propria audience. Scelsero per il si e si portarono dietro le contraddizioni
conseguenti. Tutto potrebbe essere sintetizzabile affermando che i Clash
hanno provato a competere al più alto livello con il loro modo
d’essere e la loro attitudine, hanno provato a giocarsi la partita
con le loro armi. Volevano il successo della band, ma non lo inseguirono
esclusivamente per soldi, la musica ed i fan venivano sempre al primo
posto. In un mercato di ciarlatani, imbroglioni e manipolatori, i Clash
erano una cosa il più vicino possibile alla verità.
“Non siate preoccupati della parola paradosso” disse Strummer
al NME al 1982, “noi non siamo un altro gruppo come i Boston o
gli Aerosmith. Noi abbiamo tante contraddizioni da buttare sul tavolo.
Stiamo provando ad essere il più grande gruppo nel mondo, ma
non abbiamo mai voluto essere rispettabili. Può essere che le
due opzioni non possano coesistere, ma noi ci stiamo provando”.
Il
doppio concerto allo Shea Stadium di New York (12 e 13 Ottobre 1982)
venne a ragione considerato il clou di questo tour di supporto agli
Who, che iniziò effettivamente il 25 settembre allo JFK Stadium
di Filadelfia. Lo Shea Stadium si trova nel Queens, ed ospitava le partite
di baseball dei New York Mets. Grazie alla sua capacità di contenere
oltre 55.000 persone, lo Shea Stadium agli occhi degli americani era
visto soprattutto come lo stadio che lanciò l’era dei concerti
oceanici , a cominciare dai Beatles nel 1965. Joe Strummer e compagnia
decisero di arrivare tutti insieme, ed in modo roboante, allo Shea Stadium
il 13 ottobre, seduti su una Cadillac bianca decappottabile del 1956
noleggiata da Vinil. Le immagini dell’arrivo dei quattro rockers
inglesi allo stadio sono immortalate dalle immagini girate da Don Letts
per l’occasione, ed è difficile immaginare qualcosa di
lontano da un divismo da rockstar guardando quelle sequenze. Ma nell’immaginario
Clash anche quella scelta era sempre dettata dalla volontà di
riaffermare la propria differenza e la loro imprevedibilità.
E’ utile ad esempio raccontare come il gruppo arrivò allo
Shea Stadium nella data precedente del 12 Ottobre. A parlare è
Roger Goodman, in quel momento addetto al merchandise dei Clash : “La
band era d’accordo di andare in bus allo stadio direttamente dal
loro hotel di Manhattan. La regola era quella che se un componente perdeva
il bus sarebbe andato da solo al concerto. Io e Joe perdemmo il bus.
Gli chiesi se voleva prendere un taxi, ma lui mi rispose che voleva
andare in metropolitana. Così prendemmo la metropolitana e lui
si portò dietro un grande registratore con cassette di musica
reggae. Nel corso del viaggio radunammo intorno a noi oltre 300 persone
che Joe invitò al concerto, anche se solo io e lui avevamo il
pass per il backstage. Quando arrivammo davanti alla sicurezza dello
stadio Strummer disse che se non avessero fatto entrare tutti i ragazzi
che erano con noi, lui non avrebbe suonato. Dopo un po’ di tempo
arrivarono i pass per tutti ”. Retaggi del passato ?? No, comportamenti
naturali, che erano insiti da sempre nel personaggio e nella band.
“Niente
baseball questa notte, niente football. Quello che ascolterete è
un piccolo pezzo di quello che sta accadendo a Londra in questo momento.
Da Ladbroke Grove, Londra W10, The Clash !!!”. Fu così
che Kosmo Vinil introdusse a gran voce i Clash allo Shea Stadium. Faceva
abbastanza freddo e Terry Chimes lo disse a Strummer che rispose : “Si
lo so, ma questa sera dovremo dimostrare di essere dei duri, noi non
ci preoccupiamo del freddo”. L’atmosfera della gang di strada
inglese che sfida il grande pubblico americano era cosa fatta. Una serata
uggiosa, qualche Union Jack che sventolava, ed una marea di gente di
fronte ad un gruppo che aveva cominciato a suonare punk nel 1976 al
Black Swan di Sheffield. “Welcome to the Casbah Club” disse
Joe Strummer e poi partì l’attacco micidiale di “London
Calling”. Nonostante tutto la resa live dei Clash era sempre di
ottimo livello, anche se, come detto, lo Shea Stadium non era certo
il luogo ideale per un loro concerto. Paul Simonon : “Mi sentivo
un po’ come un mimo, c’erano un sacco di persone lì.
Gli spettatori non erano vicini al palco, quindi non c’erano le
solite reazioni del pubblico ai nostri concerti, anche se fu fantastico
in ogni caso. Nei club il gruppo ed il pubblico si alimentano a vicenda”.
Sul palco dissapori e conflitti latenti sembravano scomparire. I Clash
si presentarono con look militare ed anfibi per tutti, Joe Strummer
sfoggiò il cappello con pelo di procione alla Davy Crockett ed
occhiali Ray Ban, Mick Jones e Paul Simonon si muovevano continuamente
sul palco creando i presupposti per un riuscito live-act. Cinquanta
minuti per un set molto solido (registrato da Glyn Johns), con brani
provenienti un po’ da tutta la produzione Clash . “Sono
stati grandi” disse Townshend “sono riusciti a domare la
folla dello stadio molto meglio di quanto avessero fatto i Pretenders
nel tour precedente”. Non ci voleva molto ad immaginarlo, imparagonabile
lo spessore dei Clash con la band di Chrissie Hynde. I Clash erano al
top. I quattro rockers dalla West London avevano scalato il mondo ed
avevano conquistato l’America ed il suo mercato, riuscendo ad
essere sempre qualche anno avanti rispetto agli altri, basti pensare
a come avevano stretto i legami con i nuovi punk del pianeta : i rappers
dei ghetti americani. Probabilmente in quel momento avrebbero potuto
chiedere ed ottenere il mondo, ma i Clash erano una band vera e delle
persone vere, con il loro carico di debolezze e sensibilità.
The
Clash Not For Sale
I Clash non sono in vendita, era la scritta che campeggiava sullo striscione
esibito sul palco dello US Festival di San Bernardino il 28 maggio 1983
(ultimo concerto dei Clash con Mick Jones). Joe Strummer : “Quando
Rock The Casbah è diventato un successo di quella portata in
America, ho intravisto il pericolo di diventare una sorta di ribelle
di professione”, ed ancora “Stavamo diventando una barzelletta,
eravamo sinceri quando lottavamo, ma quando siamo arrivati a quel livello
di fama più alto ho pensato che dovevamo darci un taglio. Se
avessimo fatto qualche altro singolo di successo come quello, forse
avremmo comprato delle case in Toscana e dei jet personali. Ma sarebbe
stato disonesto”. Non è usuale sentire questi discorsi
da una rockstar, ed in effetti Joe Strummer non era la solita rockstar.
Il dilemma era cosa fare di tutto quel successo, che tipo di direzione
prendere e con quale credibilità. Probabilmente i Clash avrebbero
dovuto cambiar pelle, ed anche la faccia. Oppure farla finita, come
puntualmente avvenne. La band comunicava sempre meno al proprio interno
e fu Mick Jones a farne le spese quando venne espulso dal gruppo nel
settembre 1983. Non è il caso di perdere tempo per spiegare quella
che fu una clamorosa e “tombale” decisione, e neppure il
caso di divagare fra le psicologie dei vari Strummer, Jones o del manager
Bernie Rhodes. In verità i Clash non esistevano più da
qualche mese. E quello che seguirà dopo Mick Jones non è
configurabile come Clash. Probabilmente ha ragione la fotografa Pennie
Smith quando disse : “Seppure inconsciamente, i membri del gruppo
sapevano che avrebbero dovuto separarsi dopo aver conquistato l’America”.
Si erano spinti al massimo delle loro possibilità in soli 7 anni,
e per proseguire avrebbero dovuto fare scelte che non avevano (per fortuna)
nel DNA. Per chiudere, ancora Joe Strummer a Chris Salewicz sei anni
dopo lo Shea Stadium : “Se c’è un messaggio nella
musica, questo si esprime nel modello adottato nei concerti da parte
di una band. Esso deve essere in qualche modo connesso alla vita reale
che la gente conduce. Le star non conducono una vita reale, ed è
per questo che sono felice del fatto che ci siamo fermati e che tutto
sia crollato. Perché non avrei potuto vedere davvero alcun futuro
davanti a noi se fossimo diventati come gli Who. Ho guardato davvero
da vicino questi concerti allo Shea Stadium e all’Oakland Coliseum,
perché sarebbero potuti diventare i posti nei quali avremmo suonato
normalmente. Ma ho pensato, bene, cos’è tutto questo ??
Questa è una cosa che non va da nessuna parte !! Non è
vita. Salire sul palco e cantare canzoni mentre tutto diventava più
grande e scivola verso il nulla. Per questa ragione mi sono sentito
via via sempre peggio. Tutto ha a che fare con il tipo di brani che
stai cantando. Andava bene quando noi eravamo parte del pubblico, parte
di una situazione, di un movimento. Come all’Electric Circus a
Manchester, in qualche modo c’era verità quella sera. Ma
quando tutto è diventato migliaia di chilometri distante da questo
tipo di cose, io ho cominciato a volerne uscire. Tutto diventa una parodia.
Forse c’è davvero un certo lasso di tempo nel quale si
possono suonare dei brani prima che tutto diventi senza senso. O addirittura
ridicolo”.
Mauro
Zaccuri