Era,
per chi la conosceva, «la buonissima Adele Faccio». Una
signora non giovanissima già negli anni Settanta; per niente
curata alla maniera delle politiche di oggi; pesantemente presa in giro
perché non era una pinup, oggetto di continue battute per il
suo nasone. Era, non c'è che dire, coraggiosa. Nel gennaio 1975,
aveva già 54 anni, parlando a una manifestazione dei radicali
al teatro Adriano di Roma raccontò di aver abortito. Allora l'aborto
in Italia era un reato. Lei fu subito arrestata. Marco Pannella digiunò
per la sua scarcerazione. L'aborto fu dichiarato parzialmente non incostituzionale
dalla Corte l'anno dopo. La legge sull'interruzione volontaria di gravidanza
fu approvata nel 1978. Oggi l'Adriano è una multisala, e di Adele
Faccio non si ricordava più nessuno, fino a ieri. Adesso forse
qualcuno/qualcuna saprà o si ricorderà chi è, e
scoprirà un personaggio italiano anomalo; una donna di fondo
quieta, parecchio avanti per i suoi tempi. Coltissima, determinata,
indipendente e protestataria dalla nascita. «Tutti i bambini nascono
facendo uè uè, ma tu sei nata gridando no!» scriveva
in un suo libro, e parlava di sé stessa.
Nata a Pontebba, in provincia di Udine, nel 1920, da madre piemontese
e padre genovese anarchico, si era laureata a Genova in lettere, era
stata staffetta partigiana, era andata a stare a Barcellona, vivendo
con un pittore, partecipando alla vita culturale e alla resistenza contro
Franco; appassionandosi alle forme di resistenza non violenta. Tornata
a Genova nel 1953, si era messa a insegnare. E, raccontò poi
un ex allievo «ha conquistato gli studenti. Ha parlato il linguaggio
delle fabbriche. Ha parlato di antifascismo e di resistenza, di lotte
per l'avvenire». Argomenti oggi demodé, da lei illustrati
in perfetto francese. A pensarci, tutta la sua storia oggi è
fuori moda, anche troppo. Salutati gli studenti, era andata a Milano,
da prof militante a certificata bohémienne di sinistra. Bohémienne
vera, non benestante curiosa: viveva in una sgarrupata casa di ringhiera,
traduceva Che Guevara e gli scrittori sudamericani, scriveva su riviste
culturali con nomi espliciti come «Il disincanto» o surreali
come «Il canguro». Alla fine degli anni Cinquanta –
non un periodo ideale per le madri singole - fece un figlio da sola.
Non aveva voluto che il padre lo riconoscesse, e diceva: «Eravamo
liberi tutti e due ma non ci sentivamo di sposarci, tutto qui».
Tutto qui, o forse no; comunque tirò su il figlio da sola e quando
arrivò il femminismo diventò femminista, anzi lo era sempre
stata. Nel collettivo di Brera, nell'Aied, che propagandava la contraccezione,
nella lega per il divorzio; e poi nel Cisa, centro italiano sterilizzazione
e aborto, fondato nel 1973. In quegli anni molte ragazze di sinistra
e non che avevano bisogno di abortire andavano a Londra se abbienti
o «dai radicali» se meno abbienti o se non potevano dirlo
ai genitori. Ma la fondatrice e presidente non faceva aborti, si faceva
arrestare.
Arrivò apposta dalla Francia a Roma; passò trentaquattro
giorni nel carcere di Santa Verdiana a Firenze, faceva propaganda tra
le detenute, protestava perché al compagno di partito Gianfranco
Spadaccia era permesso leggere i giornali e usare la macchina per scrivere
mentre a lei era stato detto che essendo donna, l'unica macchina consentita
era quella per cucire. Un anno e mezzo dopo era deputata radicale, insieme
a Pannella e ad Emma Bonino. Seguirono alcuni anni di grande casino,
proteste clamorose, imbavagliamenti in aula; per lei, erano soprattutto
anni di battaglia per la legge sull'aborto. Rilasciava educate interviste
in cui spiegava che era favorevole proprio perché non entusiasta
della pratica, cercava di sensibilizzare l'opinione pubblica sugli aborti
clandestini, fu delusa dalla versione finale della 194.
La considerava poco rispettosa delle esigenze delle donne. Rimase in
Parlamento senza troppo entusiasmo fino all'87. Ne uscì dopo
anni di battutacce sul suo aspetto, e con l'artrite. «Colpa della
funesta aria di Montecitorio», raccontava anni dopo in un'intervista.
Funesta politicamente e umanamente, e pessima per la salute, «è
tarata per seicento deputati mentre se va bene si è in sessanta
e si gela». Era silenziosamente delusa, lasciata l'aria funesta
non sentiva più gli amici radicali. Negli anni Novanta scriveva
come sempre poesie (nel 1980, da innamorata, compose «Farfalla
spaurita/le ali vibrano/come il cuore quando/fa qualcosa che incombe»);
aveva ripreso a dipingere, aveva fatto delle mostre, diceva di non avere
nostalgia della politica, anzi. E chi ha fatto politica con lei la ricorda
appassionata e per niente astuta: «Era di un candore totale, non
potevi volergliene anche se pensavi stesse dicendo una gran fesseria».
E ora la ricorda con affetto anche chi, come Francesco Rutelli, col
tempo ha cambiato idea. Lei fu benevola anche con lui, in un'intervista
di qualche anno fa, spiegando che se ne era andato perché «spesso
i giovani si scocciavano di Pannella».
Era la buonissima Faccio, lei, la combattente non violenta per l'aborto,
e ci aveva messo molto più tempo a scocciarsi.
Maria Laura Rodotà
10 febbraio 2007