Santo beatnik, Lester. Critico maudit, pazzo genio della scrittura gonzo,
visse veloce d'arte e d'amore, incarnò lo spirito del rock'n'roll,
morì giovane e povero etc. etc.
Di là dall'Atlantico, dopo anni di 'sti clichés, c'è
chi riflette su Lester in modo nuovo. Qui da noi tocca invece attraversare
quella fase, da zero come fosse appena morto, ché ben poca gente
sa chi sia 'sto Lester Bangs.
Sfortunato, Lester, in Italia. Articoli in oscure fanzine che li conti
sulle dita d'una mano, e poche traduzioni cagnesche, che dico, ringhianti
in faccia al lettore tant'erano brutte. Niente di più.
Urge dunque un po' di lavoro sporco. Clichés rigorosamente tra
virgolette: Leslie Conway Bangs detto "Lester" (1949-1982),
il critico rock più influente ("seminale") "di
tutti i tempi" (non c'è gara, non c'è mai stata).
Scrittura influenzata da Kerouac e Burroughs. Sul finire dei Sixties,
con Richard Meltzer e Nick Tosches ("the Noise Boys") si mette
di gran lena a "gettare le basi" della critica rock "militante"
("in anticipo di ben quattro mesi e mezzo su chiunque altro",
dirà Meltzer).
In pochi anni, Lester entra nell'empireo del New Journalism, per capirci:
Tom Wolfe, Gay Talese, George Plimpton, ancorché più giovane
di tutti costoro e in posizione defilata, nel "sotto-genere"
gonzo (narrazioni picaresche imbottite di sostanze psicotrope), capostipite
Hunter S. Thompson, e nel gonzo dentro un ulteriore sotto-genere, lo
scrivere rock (che non è semplicemente lo scrivere di rock).
Grafomane panatlantico, viene pubblicato su Rolling Stone, Creem, NME
e il Village Voice. Canta in diverse band e incide qualche disco (mentre
scrivo ascolto Jook Savages on the Brazos, Lester Bangs and the Delinquents,
mp3 a 128k trovati su una scarna pagina web).
Nel mondo di favella inglese è una "leggenda", Lester,
canonizzata nell'antologia postuma che avete tra le mani (1987, a cura
di Greil Marcus), nel film Almost Famous di Cameron Crowe (2000, Lester
interpretato da Philip Seymour Hoffman), nella biografia Let It Blurt
scritta da Jim DeRogatis (2000) e in un'antologia più recente,
Mainlines, Blood Feasts and Bad Taste (2003, a cura di John Morthland).
Ultimi trivia. Lester figura in una canzone dei REM: "It's The
End Of The World ecc." E' menzionato accanto a Leonard Bernstein,
Leonid Breznev e Lenny Bruce, lo scenario è una festa di compleanno.
Poi ci sono i Ramones di "It's Not My Place". Lester è
nominato accanto a Phil Spector, Jack Nicholson e Clint Eastwood.
Curioso che entrambe le band chiamino in causa Lester per parlare del
mondo e del mondano, in versi composti di nomi di VIP. Non è
mica un VIP, Lester, è anzi l'outsider perenne, ostile a qualunque
door policy e buttafuori. Piuttosto che entrare nel club "esclusivo"
s'unisce agli esclusi sul marciapiede, fraternizza coi respinti dal
dress code.
Lester ha/incarna un'idea del rock'n'roll comunitaria, democratica,
solidaristica. Nemico d'ogni pretenziosità e solipsismo, fa a
pugni con lo zeitgeist degli anni Settanta, negli Usa (e nel rock) periodo
di Restaurazione come dopo il Congresso di Vienna: parrucconi incipriati,
verticismo, culto della celebrità, virtuosismo "progressivo"
fine a se stesso... "Peccato che ti sei perso il rock", dice
Lester a William Miller all'inizio di Almost Famous.
Lester contrasta la Restaurazione esplorando, procedendo a tentoni,
vagando nella notte in cui tutto il rock è grigio. Propugna "altri
concetti di bellezza", glorifica "il frastuono atroce"
fin quasi a condividere l'hobby di Stan Murch, personaggio dei romanzi
di Donald E. Westlake. Murch compra e ascolta solo dischi con rumori
di auto in corsa: accelerano, scalano di marcia, rallentano, arrivano
vicino, di nuovo s'allontanano. E' nel mood più oscuro dell'epoca
sentire sinfonie dentro Metal Machine Music. Perlomeno, Lou Reed è
convinto di avercele messe.
Sa scrivere, Lester. Da piccolo scrive sequel alle storie di Verne,
Stevenson, Dumas. Prima adolescenza, si tuffa nella letteratura di genere,
fantascienza soprattutto, space operas, roba osteggiata dalla madre
testimone di Geova: la Bibbia non parla di vita su altri pianeti, quindi
non ce n'è, fine del dibattito.
|
La scoperta della Beat Generation ha il prevedibile effetto disinibente.
Intendiamoci, le solite cose: scrittura automatica, fame d'esperienza,
tendenza a "innamorarsi all'istante" (del mondo, di una donna,
di una canzone), voglia di scrivere "come un danzatore che agita
il culo", tristezza quando il mondo delude le aspettative. Ma comprimete
tutto questo nella recensione di un LP, massimo tre cartelle, e avrete
una cosa diversa, lo stile che apre a Lester le porte di Rolling Stone.
Su quelle pagine scriverà il necrologio di Kerouac, e il cerchio
potrebbe anche chiudersi.
Ma non si chiude. Dopo un po' Rolling Stone gli va stretta, inoltre
il direttore Jann Wenner lo caccia (non parla bene dei dischi dei VIP),
rieccolo a Detroit, la città di Creem, rivista più free-form
con cui può andare a briglia sciolta. Da quelle pagine impone
l'uso delle espressioni "punk rock" e "heavy metal".
Scrive di Mingus e di free jazz: Albert Ayler, l'ultimo Coltrane. Recupera
la British Invasion versante "duro" (Troggs e Yardbirds) e
il garage rock più oscuro modello Count Five. Analizza il rock-blues
malàrico e sghembo alla Captain Beefheart. Idolatra i Velvet
Underground, o meglio, Lou Reed: acquitrini d'inchiostro sul loro "rapporto
di amore/odio". Fa di Stooges e MC5 due cavalli di battaglia. S'addormenta
ogni notte ubriaco con Iggy o i Black Sabbath in cuffia.
La metà dei Seventies lo trova non poco scoglionato, c'è
siccità nel mondo del rock. Si sposta a New York in cerca di
una fonte, e la trova: pianta le tende nell'oasi del CBGB's: Ramones,
Television, Voidoids, Patti Smith Group.
Pian piano si scosta dalla scrittura spontanea, s'avvicina di più
al modello dello scrittore stone cutter, che lima, cancella, riscrive,
cesella. Non proprio la "fatica nera" d'un Fenoglio, ma nemmeno
il rotolo di carta di On the Road. Non è il solo: Richard Meltzer
afferma di scrivere ormai "più lento della merda ghiacciata".
La "grande truffa rock'n'roll" è l'ennesima ustione
all'anima. "Ogni decennio un auto-raggiro", così riassume
la propria vita. Gemebondo, batte le vie di Manhattan e indaga sulle
morti di Sid & Nancy. Scopre di far parte della schiera dei carnefici.
Prova a trasferirsi in Texas ma cambia idea. Vuole disintossicarsi da
alcool, speed e romilar. Alle serate degli Alcolisti Anonimi c'è
anche Lou Reed. L'età della fattanza da ribelle/"maledetto"
è finita, o almeno dovrebbe. Certe cose divertono se le scrive
Bukowski (a volte, nemmeno sempre), ma scritte da uno qualunque dei
millanta epigoni sparsi per l'Orbe... Il mercato dell'attenzione è
saturo e farcito di dejà entendus. Il ribelle/"maledetto"
è animale da sacrificio per i fighetti, che gli caricano la molla
e vivono, tramite lui, trasgressioni vicarie. Infine il punkabbestia
torna da papà, ed è pure questo un cliché nauseabondo,
tanto che fa schifo enunciarlo.
"Basta con le stronzate sull'amare la morte, una persona ha il
dovere di trarre il meglio dalla vita", scrive Lester. C'è
chi lo liquida con la parola tabù: "moralista". Sempre
più sovente fanno capolino nella sua prosa parole come "decenza"
e "integrità".
Il "nihilismo" è il nemico ed è bello avere
un cuore, ma iniziano gli anni Ottanta, decennio antisociale anzichenò.
Comincia l'era del videoclip e di MTV, trafficante di celebrità
immeritate. "Il videotape è freddo", dice Lester. Come
lui la pensa Jack Horner in Boogie Nights: "Se si vede di merda,
e si sente di merda, allora dev'essere merda".
Parla di andare in Messico a scrivere "il suo romanzo", Lester,
e pare non poterne più del rock. Eppure durante un incendio,
fuggito di casa in mutande, ci ripensa e di corsa rientra. Per salvare
che? La sua copia di Metal Box dei PIL.
Poi muore.
Non nell'incendio, s'intenda. Per cause sconosciute. Si dice sia colpa
del Darvon, un tranquillante. Boh. Molti anni dopo Jim DeRogatis mostrerà
a un luminare il referto dell'autopsia. "Frettoloso e superficiale",
è il referto sul referto.
La critica al "culto di Lester" inizia ben presto. "All'indomani
della sua morte, molti cercarono di mostrare che abbaiava ma non mordeva"
(Meltzer). Si confonde lo stile di Lester con le sbrodolate d'inchiostro
dei molti epigoni, che di lui non hanno capito niente. "Non imitate
me", consigliava agli aspiranti critici rock. Difatti, non è
quella l'eredità di Lester. E qual è, di grazia?
Alcuni anni fa un personaggio della bohème bolognese utilizzava
a scopo intorto una frase d'apertura: "Parlami un po' di me. Puoi
anche esprimerti con parole tue". Che ricorda un po' una celebre
battuta, forse di Cochi Ponzoni: "Ma lo sa che lei è sempre
stato un mio grande ammiratore?"
La "rockstar", il "divo", la "celebrità",
ci ordinano di parlare di loro, lo fanno con la loro telepresenza e
propaganda mercantile (quello hype che secondo Lester era "il nemico
n.1"). L'industria culturale rende l'opera secondaria rispetto
al personaggio, vende quest'ultimo e in subordine la prima. L'Autore
diventa Autorità, la quale appunto dà ordini.
Lester combattè una guerriglia incessante per riportare al centro
della riflessione la musica, l'opus, e ridimensionare chi la suonava.
A ragione, considerava l'artista un tramite, un intermediario, latore
di una testimonianza, uno che svolge una funzione sociale. L'immagine
della "rockstar" è l'esito dell'autonomizzazione del
testimone rispetto alla testimonianza che reca. Il culto della celebrità
è un "feticismo dell'intermediario".
Parlando dei Led Zeppelin, degli Stones, di Elvis, Lester cartografava
(talvolta letteralmente) i gradi di separazione tra artista e pubblico.
I vari Presley, Jagger o Plant vedevano la comunità umana allontanarsi
sugli orli di cerchi concentrici sempre più larghi.
Svariate volte, negli scritti bangsiani, ricorre la metafora della rockstar
come colui o colei che si costruisce il proprio campo di concentramento.
E' quello che ha cercato di dire Roger Waters in The Wall: c'è
qualcosa di fascista, nel rock. Il concerto rock come comizio nazi (In
the Flesh) e l'impossibilità di uscire dal meccanismo: "Stop!
/ Voglio andare a casa, / togliermi quest'uniforme e mollare lo show
/ Ma sto aspettando in questa cella perché devo sapere: / sono
stato colpevole per tutto questo tempo?".
Non a caso Lester usava espressioni come "fascismo edonista"
e "divertimento forzoso". L'obbligo a sembrare felici è
tipico delle società totalitarie, quella dei consumi lo è
fuor di ogni dubbio e, quanto ai consumi giovanili, non c'è ambito
in cui il totalitarismo sia più denso e colloidale.
Lester sottoscriverebbe senz'altro le osservazioni del filosofo e psicanalista
Miguel Benasayag:
Quando seguiamo le istruzioni e facciamo di tutto per arrivare a quello
che ci è stato proposto come modello di felicità, siamo
doppiamente infelici, perché il risultato atteso non si produce.
La famosa frase: 'ha tutto per essere felice' non significa nulla. Non
esiste un tutto oggettivo da cui può emergere la felicità.
Non va dimenticato che le immagini identificatorie sono anche disciplinari.
Nel nome della felicità diamo forma a una società fortemente
disciplinata [...] L'attuale ricerca della felicità è
liberticida è distruttrice, perché vissuta a livello individuale,
come se intorno non esistesse più nulla.
"Una rockstar è solo una persona", ripeteva Lester.
Serbava rancore nei confronti del punk perché non aveva mantenuto
la promessa, non aveva rimosso le barriere. In seguito l'hardcore ebbe
una forte spinta egualitaria, ma Lester morì agli albori di quel
movimento. In ogni caso, anche l'hardcore perse la sua spinta propulsiva,
diventando settario e nihilista o degenerando in musica frivola e insincera.
Chissà poi che direbbe Lester della figura del DJ, divenuta oggetto
di un'insensata reverenza, altrettanto e più divo di molte rockstar.
Un tale che mette dischi! Non vi è dubbio che questo rappresenti
un tradimento degli assunti egualitari, orizzontali e do-it-yourself
alla base dell'esplosione house e techno tra anni Ottanta e Novanta.
E la critica rock? Il culto della celebrità l'ha seriamente compromessa,
oggi è principalmente un accessorio del consumo, con poche eccezioni.
Per fortuna il consumo stesso sta cambiando, le vecchie modalità
vengono spazzate via, l'industria del disco ha da cambiare o tirare
le cuoia. L'artista viziato non può più vivere di rendita,
ha da sbattersi, carburare a olio di gomito, riscoprire l'umiltà.
In pratica, scarpinare e suonare, tornare a essere trovatore itinerante,
cantastorie... latore di una testimonianza. Questo può abbattere
le barriere, o renderle aggirabili, morte vestigia di un'epoca trascorsa.
Forse il P2P sta finendo il lavoro cominciato dal punk.
Mentre un potenziale di liberazione scalpita per esprimersi, la vecchia
cultura indugia nella decadenza, la liturgia del rock è sempre
meno credibile e più raffazzonata. Gli Oasis erano già
una caricatura, che dire oggi dei Libertines? Siamo ancora alle pose
da ribelli e bei tenebrosi mezzo secolo dopo il morso del primo verme
al cadavere di James Dean? Jon Spencer sarà anche bravo, ma si
crede Elvis, ed Elvis era già un cazzone, figurarsi i tardivi
epigoni. Insomma, le rockstar sono ridicole come mai prima, a vent'anni
sono già dinosauri, a trenta son già pronti per il paleontologo.
In un simile contesto, messaggio e attitudine di Lester Bangs tornano
attuali, finalmente liberi dalla camicia di forza degli stereotipi "maledettisti".
Non c'è migliore occasione per conoscere Lester. Chi s'avvicina
a lui per la prima volta ne tragga l'energia per le battaglie quotidiane
e la forza per dire quei "No!" che, oggi più di ieri,
sono imprescindibili.
Wu Ming 1, settembre 2004