Il Processo subìto
Il
Martire di Ostia ci salutò / tre volte le braccia sulle spalle
/ tre volte tutti lo abbracciammo / aveva un giglio in mano / quando
ci disse / con una lingua nata di domenica / “Voi siete partiti
/ ma solo per tornare / e ora che le strade sono vuote / una volta per
sempre tornate al tempo delle rose”. (Gang, Il Buco del Diavolo)
Leggendo
gli articoli giornalistici che Pasolini ha scritto tra il 1973 e il
1975 – raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane –
non si può non rimanere profondamente colpiti dalla lucidità
e dalla grande forza suggestiva con cui descrive i cambiamenti epocali
che investono improvvisamente e drammaticamente l’Italia tra la
metà degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Articolo
dopo articolo, parola dopo parola, ci rende coscienti di quella “mutazione”
antropologica degli italiani provocata dallo sviluppo, o meglio dalla
prima vera modernizzazione capitalistica del nostro paese; modernizzazione
“selvaggia” che ha comportato l’affermazione di un
“nuovo potere” omologante e distruttore di tutte le culture
precedenti – sia quella tradizionale borghese sia quelle popolari
– insieme ai loro valori e modelli, senza fornirne altri se non
quelli di una “nuova cultura” che Pasolini chiama, in mancanza
di una terminologia adeguata, “ideologia edonistica del consumo”.
Si resta affascinati dalla straordinaria capacità di analisi
e interpretazione di fenomeni, che ai più appaiono semplicemente
inspiegabili (ad esempio la criminalità giovanile), ricavandone
un quadro d’insieme perfettamente logico e razionale. Ci fa capire
che idee come democrazia, disobbedienza, antifascismo, tolleranza e
in generale tutto l’armamentario laico, razionale e progressista
fornito dall’Illuminismo diventino (senza un radicale “aggiornamento”)
di colpo inutili, nel momento in cui se ne impossessa il potere dei
consumi imponendoli dall’alto e falsificandoli: in altre parole
la libertà viene regalata, ma si è liberi solo di consumare.
L’antifascismo di cui si gratificano gli interlocutori degli articoli
pasoliniani si svela così in tutto il suo anacronismo e la sua
ridicolezza: una lotta ipocrita e di comodo contro qualcosa che ormai
è morto e sepolto, per volontà dello stesso “nuovo
potere” che non sa di che farsene del clerico-fascismo. Come si
può dargli torto quando dice che il “nuovo fascismo”,
ovvero la “società dei consumi”, è il più
pericoloso totalitarismo che l’uomo abbia mai conosciuto, perché
ha un forza centralizzante e un potere di acculturazione immensi, esercitati
sopratutto attraverso i mezzi di comunicazione di massa (in primo luogo
la televisione), che penetrano di soppiatto nell’intimo andando
a mutare la natura profonda delle persone; mentre il vecchio fascismo
imponeva un’omologazione, che poteva essere ottenuta anche con
la forza, ma restava solo formale e superficiale.
Si prova rabbia e impotenza per il genocidio che ha distrutto per sempre
quel mondo contadino e sottoproletario che Pasolini aveva amato e “cantato”
nelle sue opere . Si piange la scomparsa delle culture particolaristiche
arcaiche che offrivano ai poveri valori, lingua, comportamento e termini
di giudizio di cui andavano fieri e che permettevano loro di vivere
felicemente, mentre la nuova cultura interclassista fornisce ai giovani
proletari e sottoproletari un modello di vita borghese che la loro condizione
economica (nonostante un miglioramento del tenore di vita) non permette
di realizzare, semmai soltanto imitare, rendendoli così infelici
oppure aggressivi fino alla criminalità. Non c’è
più nessuna differenza culturale tra giovani sottoproletari e
giovani borghesi, addirittura questi ultimi, un tempo disprezzati, diventano
i modelli da seguire per i primi.
Fa male leggere Pasolini; perché scardina certezze; riapre ferite
nascoste che non sapevamo di avere; ci ricorda che esiste una memoria
non pacificata; riporta in superficie conflitti che non possono essere
rimossi, crimini che reclamano giustizia, misteri che non devono rimanere
tali. Ci si chiede infine cosa può fare oggi un giovane nato
dopo il 1975, dopo quel genocidio? Sulla base di quali valori e modelli
giudicare la realtà? Dove cercare una casa, un senso di appartenenza?
Per quale “cultura” e in nome di quale “cultura”
battersi?
Viene naturale cercare inizialmente le risposte a questi interrogativi
nelle stesse parole di Pasolini. Anzitutto c’è da sottolineare
che, nonostante le previsioni apocalittiche, lo stesso fatto di scrivere
incessantemente, di intervenire pubblicamente, di cercare interlocutori
disposti ad ascoltarlo e magari aiutarlo nei suoi ragionamenti è
segnale di un uomo che crede nella possibilità, anche minima,
di lottare contro tutto questo. E lui stesso a suggerire poi di tanto
in tanto, non certo senza limiti e contraddizioni, delle possibili vie
d’uscita.
Partendo dalla constatazione che è necessario in qualche modo
“adattarsi” (il cambiamento è irreversibile e il
passato non può essere restaurato), attribuisce al Pci e ai giovani
comunisti – gli unici giovani scampati al genocidio, in quanto
avrebbero fatto la sola scelta culturale possibile, essendo la loro
“una cultura ‘diversa’, proiettata verso il futuro
e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute”
– il compito di ricostruire a partire dalle macerie culturali
del ’75, di individuare “un’obbedienza a leggi future
e migliori”; in altre parole prendere coscienza e rendere coscienti
gli italiani della scissione (causa della degradazione antropologica)
che si è creata – per volere del nuovo potere – tra
“sviluppo” e “progresso” e fare in modo che
in futuro coincidano. Fa addirittura delle proposte concrete: sospendere
Tv e scuola dell’obbligo, al fine di eliminare la criminalità,
in attesa di un “altro” sviluppo, reso possibile solo da
riforme radicali (ruolo appunto del Pci).
E’ molto significativo poi che tenda spesso a sottolineare come
il suo odio non vada tanto contro la scuola d’obbligo, la televisione,
il consumismo in generale, ma proprio contro la scuola, la televisione
e il consumismo nella loro versione italiana: negli altri grandi paesi
(ad esempio Francia e Inghilterra), sostiene, ci sono “compensi”
che ristabiliscono l’equilibrio: ad esempio ospedali, scuole e
tutti i servizi pubblici primari funzionerebbero perfettamente. E questo
perché questi paesi hanno affrontato l’acculturazione consumistica
“preparati” da altre tre grandi acculturazioni e unificazioni:
quella monarchica, quella della rivoluzione borghese e quella della
I° rivoluzione industriale. Nel nostro caso invece si tratterebbe
della prima vera unificazione reale di un paese diviso politicamente
e linguisticamente per secoli, ricchissimo di culture particolaristiche.
C’è stato un salto insomma, qualcosa di improvviso, traumatico:
il mondo contadino e paleoindustriale è entrato direttamente
in contatto con quello moderno, che ne ha provocato la scomparsa. Ecco
dunque l’anomalia italiana.
Chi è allora il responsabile di questo disastro? Pasolini non
ha dubbi: i potenti democristiani che ci hanno governato per trent’
anni e soprattutto negli ultimi dieci, periodo in cui “un modo
di governare tipico di tutta la storia italiana dall’unità
in poi si è configurato come una serie di reati”. Ecco
allora la necessità di un processo, un vero processo penale.
I potenti democristiani, secondo Pasolini, sarebbero responsabili di
moltissimi reati: distruzione urbanistica e paesaggistica dell’Italia,
corruzione, manipolazione di denaro pubblico, uso illecito dei servizi
segreti, stragi, condizione paurosa di scuole e ospedali, abbandono
selvaggio delle campagne, connivenza con la mafia, stupidità
delittuosa della televisione, decadimento della Chiesa.
Ma tutto questo non sarebbe altro che la conseguenza di un unico grande
reato: un errore di “interpretazione politica”. Non si sarebbero
resi conto cioè che il contesto in cui hanno governato negli
ultimi dieci anni non era più clerico-fascista, perché
attraverso un “nuovo modo di produzione” è iniziata
l’epoca di un “nuovo potere”, che ha superato i democristiani,
riducendoli a fantasmi impazziti chiusi nel “Palazzo”. Non
accorgendosi di questo e continuando a governare come avevano sempre
fatto, si sono resi responsabili del disastro. I potenti democristiani,
continua Pasolini, hanno governato e amministrato male – e per
questo devono essere processati – perché non hanno saputo
far in modo che beni superflui, democratizzazione consumistica, tolleranza
fossero qualcosa di “avanzato, vivo, reale”. In altre parole
non hanno saputo far andare sviluppo e progresso di pari passo. Cosa
invece che, secondo Pasolini, negli altri paesi è avvenuta: infatti
sono stati concessi beni superflui, ma nello stesso tempo sono stati
assicurati i servizi primari. Attraverso un processo, attraverso la
rottura drammatica della continuità del potere democristiano
i cittadini italiani si renderebbero conto, non solo che sono stati
governati per anni da un gruppo di corrotti e incapaci, ma sopratutto
che “un’epoca è finita e ne deve cominciare un’altra”.
Anche i comunisti sarebbero “complici”, nel senso che anche
loro probabilmente non si sono resi conto del cambiamento, anche loro
hanno confuso lo sviluppo col progresso, il tenore di vita dell’operaio
con la vita stessa; ma è solo chi ha governato, chi ha detenuto
il potere, chi si è assunto delle responsabilità che deve
essere processato, così come sono stati processati Nixon e Papadopulos.
Inoltre il gioco democratico, parlamentare non è più sufficiente,
proprio perché tutti, anche i partiti all’opposizione,
hanno peccato con la Dc di cecità politica. Il processo diventa
quindi nel ragionamento di Pasolini un passaggio obbligato, per stabilire
una verità storica (il cambiamento della società) e una
giungere a una nuova consapevolezza politica (che cosa sono il “nuovo
potere” e la “nuova cultura”), senza la quale non
si può ripartire, e l’Italia resterebbe un paese semplicemente
ingovernabile.
Del resto un simile processo viene giudicato da tutti insostenibile
perché porterebbe alla luce anche reati gravissimi e inconfessabili:
i rapporti con la Cia, quelli con la mafia, il vero ruolo dei Servizi
segreti, i golpe, le stragi, e tutti gli altri misteri italiani. Ma
si deve desolatamente ammettere che probabilmente sono gli italiani
stessi a non voler sapere, accontentandosi di sospettare.
Quel processo – sulla cui utilità Pasolini credeva a tal
punto da chiedere ad altri intellettuali, letterati, giornalisti, economisti,
giuristi di aiutarlo a formalizzare giuridicamente –, come è
noto, non c’è stato. Il suo appello è rimasto inascoltato:
scriveva, ancora pochi giorni prima di essere ucciso, in una lettera
“luterana” a Calvino: “E sono finalmente indignato
per il silenzio che mi ha sempre circondato. Si è fatto solo
il processo a un mio indimostrabile refoulement cattolico. Nessuno è
intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti e ad approfondire i miei tentativi
di spiegazione. Ora, è il silenzio, che è cattolico.”
Che cosa è successo dopo? E’ successo quello che era prevedibile:
una degradazione che Pasolini in fondo aveva previsto, anche se –
credo – non sarebbe mai arrivato ad immaginare così grave.
L’Italia e gli italiani hanno continuato, malgrado tutto, a camminare,
hanno rifiutato di guardarsi allo specchio, hanno “surgelato”
il proprio futuro. La criminalità di Stato è continuata;
ancora stragi, omicidi, misteri: nei casi più fortunati si è
arrivati - e solo dopo molti anni di depistaggi, di insabbiamenti, di
false informazioni, di ombre minacciose, di assordante silenzio - alla
condanna degli esecutori materiali, quasi mai dei mandanti. Voglio fare
un breve elenco dei misteri italiani dal ‘75 in poi, giusto quelli
che mi tornano in mente: la stazione di Bologna; la strage di Ustica;
le Brigate Rosse; le stragi mafiose; la P2; il rapimento e l’uccisione
di Aldo Moro; lo stesso omicidio di Pasolini; le morti misteriose di
Michele Sindona e Roberto Calvi e di tutti quelli uccisi, in circostanze
quasi mai del tutto chiarite, mentre cercavano la verità: Pio
la Torre, Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, don
Giuseppe Puglisi, Ilaria Alpi… E l’elenco potrebbe essere
molto più lungo.
Molti dei processi legati alle vicende più torbide degli ultimi
trentacinque anni sono fermi, lontanissimi dal vedere una fine, in molti
casi (vedi recentemente Piazza Fontana) si sono conclusi nel peggiore
dei modi: ovvero nessun colpevole. Sempre lo stesso maledetto “muro
di gomma”. La verità in Italia sembra quasi destinata a
rimanere intoccabile. E noi destinati a sapere i nomi ma senza le prove.
Lo sviluppo e il liberismo economico con la globalizzazione dei mercati
hanno fatto un salto in avanti talmente lungo, che probabilmente il
progresso non li raggiungerà mai più, limitandosi a rincorrerli.
L’ansia consumistica è aumentata in modo esponenziale,
ovviamente insieme alla discariche… L’avvento delle televisioni
commerciali di Silvio Berlusconi ha introdotto massicciamente in Italia
stili e modelli di vita di stampo americano, o meglio reaganiano, e
la Rai gli è andata dietro: la Tv contro cui se la prendeva con
veemenza Pasolini era in fondo ancora quella di “Carosello”
(!), che, se confrontata con quella attuale del “Grande Fratello”,
appare la cosa più innocente di questo mondo…
C’è stato, forse, qualcosa di simile a quel processo di
cui parlava Pasolini: penso ai processi legati all’inchiesta “Mani
Pulite”, che ha portato alla luce del sole tutto un sistema di
corruzione che vedeva coinvolti Dc e Psi: ma è avvenuto appunto
troppo tardi, come aveva previsto Pasolini, quando ormai si stavano
facendo altri giochi e l’unico risultato è stato probabilmente
la conferma di quello che scriveva Pier Paolo sul Pci: “un paese
pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto…”.
La Dc era destinata a sparire, perché ormai da anni non si fondava
più su nulla, per fare spazio a una nuovo partito che incarnasse
coerentemente e senza più ipocrisie i modelli, i desideri, i
valori della nuova borghesia italiana: Forza Italia, sorta di partito-azienda
composto da imprenditori, ex piduisti, magistrati “scelti”,
e una cospicua dose di politici recuperati dallo sfacelo democristiano
e socialista (oltre a diversi comunisti “pentiti”).
Io penso che quel processo che gli italiani non hanno mai voluto affrontare,
perché insostenibile, abbiano finito col subirlo da parte della
Storia, sulla propria pelle. Tutti nodi sono venuti al pettine, le contraddizioni
sono esplose. Il rifiuto di fare i conti col passato, l’incapacità
di voltarsi indietro, l’ostinazione nel restare ancorati al presente
hanno condannato l’Italia a non avere un futuro.
Un personaggio come Berlusconi e l’ideologia che incarna non vengono
fuori dal niente, sono un frammento di un mosaico più grande,
sono il risultato di quella mutazione antropologica, di quello sviluppo
senza progresso, di quell’esplosione selvaggia del consumismo
che è un fenomeno tutto italiano: potremmo dire che ce lo meritiamo
Berlusconi. In quale altro grande paese un personaggio del genere, con
un passato oscuro come il suo e in odor di mafia, oltretutto ex piduista
(tessera n. 1816), sarebbe potuto diventare capo del governo? A proposito
della loggia massonica P2: tempo fa ho letto un articolo di Massimo
Del Papa che molto precisamente confrontava i vari punti del “piano
di rinascita” di Licio Gelli col programma e le riforme effettivamente
realizzate dal primo e dall’attuale governo Berlusconi: ebbene,
le affinità sono impressionanti.
Ha scritto Del Papa: “Noi siamo un paese senza memoria. Il che
equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato
prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne
tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le
sue contorsione, le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese
circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è.
In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse
cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi
non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi
invincibili, imparerebbe questo Paese speciale nel vivere alla grande,
ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati
da uomini diversi ma con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza
per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una
tensione morale.”
La sinistra: anche il Pci ha dovuto alla fine riconoscere la natura
del nuovo potere, e quando è avvenuto è stato fatale.
Dopo il crollo del muro di Berlino, la sinistra si è trovata
spaesata, frantumata, e le è stata venduta una sconfitta, che
io ritengo inesistente. Sarebbe il capitalismo il migliore dei mondi
possibili? Con il suo lato oscuro, le guerre, lo sfruttamento, i disastri
ecologici? Ma penso che il vento stia cambiando, che i giovani stiano
recuperando e rinnovando un modo di pensare al plurale, collettivo,
che dopo gli anni ottanta sembrava semplicemente impossibile. Sta alla
politica, alla sinistra, o a quello che ne rimane, cogliere questi fermenti.
Non possiamo lasciare che la politica si suicidi una volta per tutte,
bisogna tornare a farla e farla bene. La sinistra italiana deve far
proprio un vero spirito riformista, “luterano”, per mettere
ordine e paletti là dove regna il liberismo selvaggio; per creare
le possibilità per un’informazione veramente democratica
e pluralista; per difendere come priorità assolute l’ambiente,
lo stato sociale e il lavoro; per sottrarre al mercato e al privato
i beni, servizi e i bisogni che non possono essere mercificati: scuola,
sanità, trasporti, cultura, arte. Ma oltre a un opera di “resistenza”,
la sinistra deve adoperarsi nella “ricostruzione” ; in altre
parole trovare la via a un “altro” sviluppo. Se questo non
avverrà, vivremo un’altra “stagione all’inferno”.
Si ritorna alla domanda iniziale. Che fare? Ho scritto sopra che la
Storia ha condannato l’Italia a non avere un futuro: è
vero, questa sentenza c’è stata, ma non è detto
che non si possa ricorrere in appello… Adattarsi, per non rischiare
di impazzire, è il primo passo: la società consumistica
è una realtà dalla quale non credo sia possibile tornare
indietro, ma ovviamente dentro questa società ci si può
stare e vivere in molti modi (con la massima coerenza possibile, ad
esempio). Credo che anzitutto si debba conservare la memoria di ciò
che è stato ed è andato distrutto (anche se penso che
niente sparisca completamente, qualcosa da qualche parte si conserva):
il mondo contadino e le culture popolari: prendere coscienza che non
è sempre stato così, ricordare Accattone e i suoi amici
“fucilati” in massa in una notte di fine anni ’60,
recuperare i frammenti di una cultura e cercare di ricomporli non vuol
dire tornare indietro per restaurare il passato, ma andare avanti per
ricostruire il futuro, fondare la possibilità di una nuova appartenenza,
oltre il tramonto. Ricordare che esiste, al di là della storia
ufficiale delle commemorazioni e dei manuali, una storia di parte, partigiana,
che deve essere “cantata”, è necessario per tenere
insieme una comunità, per riallacciare i legami, per ricostruire
una collettività là dove la società liberista privilegia
l’affermazione del singolo, l’individualismo.
Perché, come ha detto quel meraviglioso “poeta” popolare
che è Marino Severini dei Gang, “senza la memoria dell’ingiustizia,
dell’alienazione, dello sfruttamento, dell’esilio forzato,
della repressione, non ci sarà per noi nessun futuro, non saremo
capaci di inventarcelo e saremo divorati sempre più dalla paura
. La paura è quella forza che ci riporta indietro, nella caverna,
e non avanti come la memoria della strada fatta, che si chiama emancipazione.
Solo la memoria ridà senso a ciò che è più
prezioso, la dignità.” Dobbiamo annaffiare le “radici”
per farci spuntare nuove “ali”.
Libri come Scritti Corsari e Lettere Luterane sono di un’attualità
sconcertante: dovremmo portarli sempre in tasca, e rileggerli di tanto
in tanto, perché ci troveremmo sempre qualcosa che ci aiuti a
capire i nostri tempi. Bisogna poi che il cinema, la letteratura, la
musica, le canzoni popolari e l’arte in generale ci raccontino
finalmente il nostro passato prossimo, così come non è
mai stato fatto. L’arte può tenere vivo ed aggiornare un
immaginario, può aiutare a non dimenticare, a non sentirsi soli
. Ma per lottare contro i luoghi comuni, la banalità e la stupidità
televisiva servono anche nuove parole, o meglio un nuovo rapporto con
la parola, con la fantasia, con le metafore. Servono nuovi profeti,
cantori, che ci raccontino i tempi nuovi, che ci indichino la strada
da percorrere con le loro visioni: e ci sono questi profeti, basta avere
la pazienza di cercarli, perché non stanno sulle prime pagine
dei giornali. E io credo che sia compito della politica far in modo
che l’arte e gli artisti abbiano l’opportunità di
crescere e venire allo scoperto.
Paolo
Falossi