Complete Control , la scommessa vincente dei Clash
Controllo della musica, controllo dei contenuti, del management, dell’entourage,
del budget a disposizione per realizzare il proprio sound. Furono questi
gli elementi che resero possibile la realizzazione di un capolavoro
come “London Calling”, i cui 25 anni sono celebrati con
la sua ripubblicazione in una nuova confezione deluxe composta da 2
cd ed 1 dvd. Periodo di grande coesione fra i componenti del gruppo
e di brillante vena artistica, i dodici mesi che andarono dalla fine
del ’78 alla fine del ’79 furono determinanti per l’affermazione
dei Clash come gruppo di caratura mondiale, fino a farli diventare,
all’apice del successo, la miglior rock’n’roll band
sulla faccia del pianeta.
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Ma le cose sarebbero potute andare diversamente, molto diversamente,
se il coraggio e la determinazione dei quattro rockers londinesi (Joe
Strummer, Mick Jones, Paul Simonon, Topper Headon) non avessero fatto
premio. Il 1978 fu infatti segnato dal declino del primo punk inglese
e della spinta “rivoluzionaria” e libertaria che lo aveva
contraddistinto. I Sex Pistols avevano abdicato dopo il disastroso tour
americano, conclusosi al Winterland Ballroom di San Francisco il 14
gennaio del ’78, Sid Vicious se la passava malissimo, Johnny Rotten
aveva formato una nuova band, i Public Image Limited, i Damned vivevano
un travaglio interno al gruppo dopo il contraddittorio “Music
For Pleasure”. Dal loro punto di osservazione i Clash avevano
già preso le distanze dal punk rock, o meglio da quello che il
punk stava diventando, cioè una caricatura di se stesso.
Già nel marzo del ’78 Joe Strummer dichiarò al Melody
Maker : “Quando il punk arrivò e diede un calcio a tutte
quelle ottuse, noiose, inanimate rock band, noi abbiamo avuto la prima
dose di realismo. Ma dall’essere la cosa più potente nel
mondo, il punk è diventato la cosa più noiosa, come se
ognuno si fosse asservito per seguire quel modello”. Frasi di
questo tipo, scandite dal leader della band che rappresentava “l’anima
politica del punk rock”, erano emblematiche per intuire che la
svolta era nell’aria, anche se non fu per nulla facile provare
a convincere i punk più ortodossi della bontà di questa
scelta. Ma i Clash non sopportavano di essere etichettati, non sopportavano
di vedere soffocate le loro ambizioni artistiche, non sopportavano di
essere rinchiusi come buoi nel recinto dell’industria discografica
per poi venire macellati. Come ha dichiarato ad Uncut la fotografa Pennie
Smith, “on the road” insieme a loro nel secondo, decisivo,
tour americano : “Erano rivoluzionari nelle loro teste. Volevano
essere in una band e lo volevano fare a modo loro”. La strada
del cambiamento stava per essere percorsa con decisione, mentre intorno
a loro cominciavano a montare le polemiche, con la stampa a porre dubbi
sulla credibilità della band, a domandare dove fossero finiti
gli ideali del ’76, a chiedere conto del rapporto con la casa
discografica CBS. Nel marzo del ’78, quando Joe Strummer era uscito
dall’ospedale per un’epatite contratta, diversi pezzi che
saranno l’ossatura del loro secondo album erano già pronti,
tipo “Tommy Gun”, “Safe European Home”, “Last
Gang in Town”. Le prove nella sala in Camden Town avevano dato
i loro frutti. “Quella di percorrere la strada più difficile
divenne una questione essenziale. Sapevamo che avremmo potuto usare
la stessa formula e vivere felici. Ma i Clash non furono mai così.
Volevamo sempre spingerci avanti e fare cose interessanti” (Paul
Simonon, Mojo).
Due passaggi contribuirono senza dubbio ad alimentare la convinzione
della band di poter raggiungere, attraverso la propria musica ed il
proprio autonomo approccio politico, una maggiore audience: la partecipazione
al concerto antirazzista organizzato dall’Anti Nazi League in
Victoria Park alla fine di aprile (che non ottenne la completa approvazione
del manager Bernie Rhodes), ed i contatti avviati nello stesso periodo
con i registi Dave Mingay e Jack Hazan per la realizzazione del film
“Rude Boy”, spaccato dell’Inghilterra di quel periodo
divisa dalle tensioni razziali, nel quale i Clash e la loro musica emergevano
come protagonisti. Nel giugno del ’78 pubblicarono lo splendido
singolo “White Man in Hammersmith Palais”, in assoluto uno
dei migliori brani dell’intera loro produzione. Si stava invece
deteriorando progressivamente il rapporto con Bernie Rhodes, il manager
che aveva avuto un ruolo di primissimo piano, in particolare dal punto
di vista culturale e politico, nella conduzione della band nei primi
due anni, come ebbe onestamente a dichiarare Joe Strummer : “Bernie
aveva in testa l’idea dei Clash ed i Clash non sarebbero mai esistiti
senza Bernie Rhodes”. A cominciare dalla metà del ’78
Rhodes non sembrava apprezzare più il songwriting e le scelte
della band, era impegnato a seguire nuovi gruppi come i Subway Sect
o i Black Arabs, ed avrebbe voluto portare all’interno dei Clash
l’ex Pistols Steve Jones (suonò qualche scorcio di concerto
con i Clash come quinto elemento), sembra al posto di Mick Jones.
La risposta della band fu alla fine il licenziamento del manager che
portò a code polemiche piuttosto velenose. Era l’ottobre
1978, giusto un mese prima dell’uscita di “Give’Em
Enough Rope”, il secondo album registrato fra i Basing Street
Studios di Londra e l’Automatt di San Francisco. Rotto lo storico
sodalizio, i Clash si ritrovarono in poco tempo, e nonostante la loro
ascesa fosse sotto gli occhi di tutti, chiusi in un angolo, senza manager,
senza un luogo in cui provare, ed alle prese con i soliti, cronici problemi
finanziari. “Eravamo davvero in cattive acque. Allora mostrammo
a tutti ciò che eravamo capaci di fare.” (Joe Strummer,
dal Dvd “The Last Testament”).
Si diceva di “Give Em’ Enough Rope”. Un album dalle
“chitarre forti”, figlio di un periodo di transizione e
prodotto, fra critiche, incomprensioni e malumori, dall’americano
Sandy Pearlman, ex critico musicale da tutti ricordato per la produzione
dei newyorkesi Blue Oyster Cult, metallari amanti del gotico, ma che
aveva lavorato anche con i Dictators, protagonisti del primo punk rock
made in NYC. Nonostante il suo essere “disco-ponte” verso
la definitiva apertura al rock’n’roll, “Give ‘Em”
raccolse grandi critiche negli States (entusiastiche quelle di Greil
Marcus e Lester Bangs), rispetto la complessiva diffidenza ottenuta
in patria. Difficile in effetti poter resistere a veri anthem quali
i già citati “Tommy Gun”, “Safe European Home”,
“English Civil War”, ed alla classica, memorabile rock song
“Stay Free”.
Il dopo Rhodes vide i Clash reagire immediatamente e ricompattarsi come
non mai. La band si muoveva ora come se si fosse liberata di una presenza
troppo ingombrante e soffocante, ed all’interno del gruppo si
respirava un’aria di indipendenza e di libertà. Il ruolo
di manager venne affidato a Caroline Coon (già giornalista del
Melody Maker), la quale attraverso le sue conoscenze negli States, condusse
i Clash in America per un primo, anche se rapido tour. La Coon riuscì
a vincere le resistenze della Cbs, ma non al punto di farsi finanziare
interamente la tournee, a parte una modesta somma stanziata per un po’
di promozione. In ogni caso l’apertura al mercato americano, che
come detto aveva già accolto molto bene “Give ‘Em
Enough Rope”, si rivelò decisiva per il futuro successo
dei Clash e probabilmente per la loro stessa esistenza. Il Pearl Harbour
Tour debuttò al Commodore Ballroom di Vancouver (Canada) il 30
gennaio ’79 e si chiuse, dopo nove concerti fra San Francisco
e New York, il 20 febbraio, ancora in Canada al The Rex Danforth Theatre
di Toronto.
I Clash chiamarono Bo Diddley ad aprire i loro concerti, e la scelta
del musicista di colore, soprannominato “The Originator”
a causa della sua influenza su molti musicisti di rock’n’roll
e rythm and blues, non era casuale. Attraverso la presenza on stage
di Bo Diddley la band si avvicinava volutamente alle radici del r’n’r
e della musica popolare americana, portandola nel cuore dei giovani
“yankees” che cominciavano a seguirli. Non c’era poi
molto da sorprendersi, se si considerano le influenze e le preferenze
musicali di Strummer e Jones. “Volevamo vedere l’America”,
dichiarò successivamente Jones, e lo fecero a loro modo, mantenendo
la loro attitudine punk, e sottolineando con orgoglio il loro essere
band proveniente dalla working class inglese. Aprivano sfacciatamente
i loro infuocati concerti con “I’m so bored of the Usa”
(“volevamo testare il loro sense of humour” disse ironicamente
Joe Strummer) e li chiudevano con l’urlo ribelle di “White
Riot”. Furono loro stessi e riuscirono ad affascinare il pubblico
americano, il successo completo era solo rimandato di qualche mese.
Down
by the River, Vanilla Studios & Vanilla Tapes
Rientrati a Londra la priorità principale rimaneva la ricerca
di una sala in cui provare, dopo il forzato abbandono della storica
Rehearsal Rehearsal in Camden Town, regno incontrastato di Bernie Rhodes.
Il compito venne affidato ai roadies Johnny Green e The Baker che cominciarono
a lavorarci sopra sondando varie possibilità. Come indicato nel
bel libro di Johnny Green “A Riot Of Our Own”, all’inizio
ci furono vari contatti con i Nomis Studios, con i locali degli Who
a Shepperton, venne fatto un pensierino anche alla sala prove usata
in passato dai Sex Pistols, in Denmark Street. Ma per vari motivi che
riguardavano aspetti finanziari, di distanza e di scarso appeal, non
se ne fece nulla. Alla fine venne scovato un posto chiamato Vanilla
Studios, in Causton Street nel quartiere di Pimlico e vicino al Vauxhall
Bridge, uno dei ponti londinesi sul Tamigi. “I Vanilla erano sul
retro di un garage, così se qualcuno si recava sul posto non
poteva immaginare che lì ci potesse essere una sala prove, perché
tutto appariva come un garage vecchio stile” (Mick Jones, ad Uncut).
Una lunga,spoglia, stanza rettangolare di color crema, questi erano
i Vanilla. Ma diventarono un posto perfetto per i Clash di quel periodo,
una band coesa con obbiettivi ormai chiari e comuni. Isolati dai curiosi,
dagli altri musicisti e dalla stampa (il numero telefonico del Vanilla
non venne concesso a nessuno), concentrati sulle loro idee e sulla loro
musica che attendeva solo di essere “messa in circolo”.
Così i Clash vissero quei mesi. “Ci piaceva questo posto
perché era in mezzo al niente, non c’era nessuno. Eravamo
noi, Johnny ed il Baker. Questa era la squadra.” (Paul Simonon)
Dopo aver ricevuto l’ok (e l’assegno) da parte della Cbs,
la band trasferì la strumentazione nel nuovo locale e si mise
subito a provare i nuovi pezzi con costanza e determinazione. A cominciare
dall’aprile del ’79 i Clash si ritrovavano quotidianamente
ai Vanilla, alternando le prove a furibonde partite di pallone in cui
spiccavano, per doti tecniche e di velocità, Mick Jones e Topper
Headon. L’atmosfera era rilassata (avrà avuto la sua influenza
il buon consumo di cannabis ?) e contemporaneamente di grande fermento
creativo. Una delle poche persone che godettero di una certa disponibilità
di accesso ai Vanilla, era Kosmo Vynil, amico di Mick Jones e collaboratore
dell’etichetta discografica Stiff Records. Gradualmente Kosmo
diventerà il P.R. dei Clash, o meglio il loro “consigliere”,
come lui stesso amava definirsi.
Le trame delle nuove canzoni partivano spesso dalle intuizioni melodiche
di Jones (il vero “architetto” del suono Clash) alle quali
Headon forniva la ritmica utilizzando stili diversi, riuscendo ad esprimere
il suo grande talento. Fu proprio la poliedricità del drummer
a spingere i Clash ad esplorare svariati generi e ad elaborare sonorità
inimmaginabili sino a qualche mese prima. Paul Simonon aggiungeva il
basso (in modo più disinvolto e convinto rispetto al lavoro fatto
con il produttore Sandy Pearlman in “Give ‘Em Enough Rope”)
e Joe Strummer, sdraiato per terra, scriveva testi che sarebbero passati
alla storia, ancora politici e dalla scrittura sempre più personale,
elevandolo in qualche caso al livello di Garcia Lorca, come qualcuno
scrisse riguardo “Spanish Bombs”. Il sound fluiva in modo
naturale ed abbracciava adesso anche il R&B, il r’n’r,
il jazz, il soul unendosi a generi già utilizzati come il reggae
e lo ska. Ma la cosa più interessante fu la capacità di
riportare tutti questi generi all’interno della personalità
della band, affinché non fossero slegati l’un con l’altro,
ma facenti parti di un processo organico ed unitario dalla personalità
spiccata ed unica. In sostanza i Clash stavano inventando un “nuovo
sound” utilizzando la musica delle radici attraverso la loro mai
abbandonata “punk attitude”.
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Joe Strummer e compagnia mollarono il punk come genere musicale e come
cliché, ma ne conservarono lo spirito e quel profumo di libertà
che aveva coinvolto molti giovani inglesi a partire dalla metà
degli anni ’70. Sul tema Paul Simonon ebbe modo di affermare :
“Il punk era per il cambiamento e la sua regola numero uno era
: non ci sono regole!”. Concetto applicato nella pratica come
si potrà notare. Il valore dei nuovi pezzi era chiaro a tutti,
quindi la band decise di cominciare a registrarli utilizzando un Teac
a 4 piste noleggiato dal tecnico del suono degli Who. Il materiale prodotto
era parecchio e le registrazioni effettuate comprendevano fra gli altri
brani come “Rudie Can’t Fail”, “Hateful”,
“Death Or Glory”, “Lost in the Supermarket”,
“Brand New Cadillac”, “London Calling”, tutti
già abbastanza definiti. Vennero registrate diverse cassette
delle sessioni di prova che Mick Jones era solito portarsi via per valutarle
con maggiore calma. Simonon ad Uncut : “Presumo che fosse l’inizio
della nostra apertura come musicisti e come metodo di lavoro collettivo,
perché ognuno aveva la propria idea, come succede in ogni gruppo,
e le cose andavano per un verso in una direzione, ed in un'altra direzione
nel lavoro d’insieme. Avendo la disponibilità delle registrazioni,
potevi portarle via ed ascoltarle fuori dal contesto della sala prove
ponderando meglio quale fosse la direzione che stavano prendendo, tornando
in sala con nuovi aggiustamenti o miglioramenti”.
Dopo i primi ascolti nel gruppo si rafforzò la convinzione di
far uscire un nuovo disco, così alcune di queste cassette vennero
affidate a Johnny Green affinché le portasse, insieme ad un registratore
nuovo di pacca, all’ascolto di Guy Stevens, la persona designata
alla produzione di quello che sarà “London Calling”.
Cosa avesse ingerito quel giorno il buon Green ancora non è chiaro,
ma in ogni caso doveva essere qualcosa di piuttosto forte, al punto
che le cassette ed il registratore rimasero sulla metropolitana ed il
road manager, svegliatosi di soprassalto dall’oblio alcolico,
scese tranquillamente dal treno con buona pace di Stevens e dei Clash.
Dopo un affannoso ed infruttuoso tentativo di recupero, raccontò
una storiella alla band circa una rapina di cui sarebbe stato vittima,
ma dopo qualche anno la verità venne a galla. Le altre registrazioni
preservate, presenti nel bonus cd dell’edizione speciale del 25th
di London Calling, sono denominate “Vanilla Tapes” e pare
siano il frutto di un recente “ritrovamento” durante un
trasloco di Mick Jones. Resta da scoprire che fine abbiamo fatto le
cassette perse da Johnny Green. Una eventualità è quella
che qualcuno le abbia trovate, le abbia portate nel proprio appartamento,
si sia messo ad ascoltarle, non le abbia gradite ed infine le abbia
gettate nella spazzatura. Beh, quel qualcuno sappia che ha distrutto
una delle registrazioni storiche del rock’n’roll. E si penta.
I “Vanilla Tapes” sono un documento interessante, che si
ascolta volentieri nonostante la qualità del suono non sia ovviamente
delle migliori. Si tratta essenzialmente dei demo di “London Calling”,
con alcune registrazioni già molto vicine alle versioni definitive,
come ha avuto modo di confermare anche Mick Jones : “I pezzi erano
già li, erano praticamente arrangiati”. Si alternano versioni
strumentali come nel caso di “Hateful”, “Paul’s
Tune” (è “Guns Of Brixton” ovviamente, in versione
più lenta, da perfezionare), “The Police Walked in 4 jazz”
(Jimmy Jazz in chiave un po’ più acustica), “Working
And Waiting” (è Clampdown, già potente, con le chitarre
in evidenza), “Up-Toon” (è “The Right Profile”),
“Revolution Rock” (in cui esce tutto il grande lavoro alla
batteria di Topper Headon) a quelle complete di cantato, tipo “Rudie
Can’t Fail” (con le voci un po’ diverse, sottotono),
“I’m Not Down”, “Koka, Kola,Advertising &
Cocaine” ( è “Koka Kola” ancora abbozzata),
“Lost In The Supermarket”, “London Calling”
(più lenta, con cantato e testo diverso, ma già fedele
nella struttura alla versione definitiva) ed una gran bella esecuzione
di “Remote Control”, il secondo singolo dei Clash, pubblicato
nel maggio ’77 dalla Cbs senza il consenso della band. Le curiosità
maggiori riguardavano ovviamente i brani inediti e qui dobbiamo dire
che non si trovano cose esaltanti, come d’altra parte era facile
prevedere. Ciò non toglie che “Hearth & Mind”
sia un bel pezzo dall’impatto in stile Clash ’78 (ed in
effetti richiama nelle sonorità “The Prisoners”),
come buono è “Where You Gonna Go (Soweto)” costruito
su base reggae con Strummer alla voce. “Lonesome Me” è
una ballata country (!!) piuttosto tradizionale cantata da Mick Jones,
mentre “Walking The Slidewalk” è un blues rock strumentale
senza grandi pretese. La sorpresa positiva è rappresentata dalla
cover del brano di Bob Dylan “The Man In Me” (tratto dall’album
“New Morning” del 1970) cantata da Strummer e rivisitata,
pur mantenendo le linee melodiche dell’originale, con convinzione
dai Clash in chiave reggae.
Midnight
To Stevens, esperienza unica ai Wessex Studios
I Clash volevano far uscire il nuovo disco, magari utilizzando proprio
le registrazioni ai Vanilla, ed approfittando dei bassi costi di registrazione
sostenuti, frutto di una precisa politica della band. La CBS invece
frenava, non era sua intenzione immettere sul mercato un altro prodotto
dei Clash, visto che in maggio era uscito l’Ep “The Cost
Of Living” (comprendente “I Fought The Law)” e da
lì a qualche mese (luglio ’79) sarebbe uscita la versione
americana di “The Clash”, il loro primo album datato aprile
‘77, che comprendeva in questo caso anche “I Fought The
Law”, “White Man in Hammersmith Palais”, “Clash
City Rockers”, “Complete Control”.
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Ci voleva quindi un accelerazione decisiva a tutto il processo. I Clash
contattarono Guy Stevens sapendo bene che tipo di produttore stavano
scegliendo. Stevens era stato produttore dei Mott The Hoople, fra i
gruppi favoriti da Mick Jones quando era adolescente, aveva già
lavorato con i Clash nel novembre ’76 sui loro primi demo, quando
sembrava che la band si dovesse accasare alla Polydor anziché
alla Cbs, ed era stato il “diffusore” in UK del R&B
americano, una specie di importatore appassionato della roots music
d’oltreoceano. I Clash avevano il massimo rispetto di Guy Stevens,
i suoi metodi anticonformisti lasciavano la piena libertà espressiva
ai musicisti in studio, in una sorta di disordine organizzato, dove
il produttore viveva la musica insieme alla band per tirarne fuori l’anima,
a costo di scontrarsi, anche fisicamente, per raggiungere il risultato.
E non importava se spaccava sedie, lottava con il tecnico del suono
(il povero Bill Price), o urlava frasi sconnesse. Stevens non aveva
un approccio tecnico, ma era un entusiasta, un vero appassionato del
r’n’r ed amava quelle canzoni dei Clash, così tutti
loro accettarono il suo modo di lavorare fino a farlo diventare un’arma
vincente. Mick Jones ad Uncut : “Ho sempre amato Guy, era un incredibile
catalizzatore. Eravamo in studio per registrare un pezzo e lui veniva
a sussurrarti qualcosa nell’orecchio. Era solito sussurrare a
Joe quando stava suonando il piano : Jerry Lee Lewis, Jerry Lee Lewis,
Jerry Lee Lewis, provando a trasmettere lo spirito di Jerry Lee nella
persona che stava suonando… era questo il livello su cui lavorava”.
Guy Stevens era fuori dal giro da un po’ di tempo a causa dell’alcolismo,
e per lui la produzione di “London Calling” era un ottima
occasione per rientrare e per lavorare con maggiore continuità.
Nel luglio del ’79 i Clash entrarono ai Wessex Studios , situati
in una vecchia struttura ecclesiale convertita al 106 di Highbury New
Park - Islington, con molti pezzi frutto del lavoro ai Vanilla. E’
il caso di ribadire che le composizioni erano in sostanza già
pronte, arrangiamenti compresi.
La CBS , preso atto della situazione, diede il benestare all’uscita
del disco e condivise anche la scelta di Stevens come produttore, anche
se le richieste dei Clash non erano finite lì, come si vedrà.
Maurice Oberstein, il boss della multinazionale, anticipò alla
band di voler sentire personalmente i risultati finali di quelle registrazioni
così gelosamente custodite. Non sapeva quello che lo attendeva.
Ai Wessex le sessioni fluirono speditamente, insieme al gruppo ed a
Stevens c’erano gli ingegneri del suono Bill Price e Jerry Green.
Il vibrante approccio di Guy Stevens conferì alle registrazioni
finali dei brani un ulteriore spessore emozionale, ed il tutto prese
una piega segnata dal suo irrefrenabile entusiasmo. Le immagini riguardanti
qualche scorcio delle sessioni ai Wessex sono contenute nel Dvd dell’edizione
speciale del 25th, denominato “The Last Testament”, e comprendente
anche nella prima parte una serie di interviste ai Clash (l’ambientazione
pare proprio essere quella di “Westway To The World” del
1999) ed a Kosmo Vinyl sul tema “London Calling”. Nel video
ai Wessex viene allo scoperto “il metodo” Stevens : gli
incitamenti sul cantato di “Four Horsemen”, il vino versato
sul piano mentre Strummer suonava, distruzione di suppellettili varie,
salti, urla, e la continua ed ossessiva ricerca di far sciogliere la
band e di farla suonare al massimo di intensità possibile. Il
primo pezzo ad essere registrato fu significativamente il r’n’r
di “Brand New Cadillac”, la cover del rocker Vince Taylor
(“il musicista che diede inizio al r’n’r inglese”,
disse a Mojo Joe Strummer nel 1980, anche se Taylor il successo lo raggiunse
in Francia agli inizi degli anni ’60), e poi via via tutti gli
altri, con il contributo degli Irish Horn, la sezione fiati di Graham
Parker, e di Mickey Gallagher, prestato dai Blockheads di Yan Dury,
alla tastiere.
Nel maggio del ’79 in Inghilterra salì al potere Margareth
Thatcher, rappresentante di quella destra liberista che tagliò
lo stato sociale e cominciò un programma di privatizzazioni selvagge
del settore pubblico, anticipazione di una politica che portò
agli storici scioperi dei minatori inglesi iniziati nel 1984. L’Inghilterra
era come avvolta in un clima di depressione, tristezza e preoccupazione,
ed una buona parte delle liriche di “London Calling” espressero
naturalmente anche queste sensazioni proiettandole in un contesto di
“pericolo globale”, di alienazione urbana, di guerra fredda
senza soluzione di continuità che andava a coinvolgere il mondo
intero (si pensi che l’anno successivo Ronald Reagan prese il
potere negli States). Visti in questo contesto i testi dello storico
vinile rappresentano un quadro efficacemente rappresentativo del quadro
socio-politico di quegli anni. Il testo della title track “London
Calling” venne ispirato dal disastro nucleare americano di Three
Mile Island del marzo ’79, ed esprimeva tutta la preoccupazione
per un pianeta governato da logiche folli destinate a cancellare il
genere umano, quello di “Spanish Bombs”, attraverso i suoi
riferimenti storici, rievocava i combattenti anarchici della guerra
civile spagnola e si interrogava sul terrorismo moderno, “Clampdown”
era l’attacco al potere repressivo, alle forme di autoritarismo
fasciste e religiose, ma anche un’esortazione alla reazione :
“venga l’ora del furore/la rabbia può essere forza/sai
che puoi usarla?”, mentre “Koka Kola” rappresentava
un atto d’accusa verso i nuovi rampanti della borsa americana,
i famosi yuppies anni ’80, rappresentanti di un paranoico mondo
fatto di soldi, cocaina ed egoismo.
Prima della fine di agosto il disco era praticamente completato con
i suoi 18 brani. Come promesso, il boss della CBS, Oberstein, si recò
in Rolls Royce ai Wessex Studios per ascoltare il prodotto. I pezzi
gli piacquero, ma non manifestò le sue sensazioni nel modo plateale
preteso da Guy Stevens. Il produttore si bloccò così davanti
la Rolls di Oberstain gridandogli che non si sarebbe mosso di lì
se non avesse dichiarato più chiaramente il suo pensiero sull’album.
Alla fine un frustrato Oberstain fu costretto a dichiarare geniale il
lavoro. Archiviata anche questa pratica.
Clash
Calling, i quattro outlaws della Westway nel mito
Ai primi di agosto i Clash avevano suonato a Turku in Finlandia insieme
a Graham Parker and The Rumors per rimpinguare le loro esauste casse,
ed ora si stavano preparando per un secondo tour americano. Affidarono
il mixaggio finale di “London Calling” a Bill Price con
Stevens a fare da supervisore, e partirono per gli States. Il “Take
The Fifth Tour” ebbe inizio l’8 settembre 1979 al Tribal
Stomp Festival di Monterey, California, e terminò a Vancouver
il 16 ottobre, con David Johansen, Undertones, Sam and Dave, Joe Ely
a far da supporto alternativamente nelle varie date. Al loro seguito
c’erano il tastierista Gallagher come quinto elemento, il disegnatore
del NME Ray Lowry e la già citata e bravissima Pennie Smith,
colei che scattò la fotografia entrata nella storia del r’n’r
(entrambi hanno fornito disegni e foto per il bel booklet dell’edizione
speciale). Nella scaletta del tour vennero compresi pezzi che saranno
in “London Calling” : “Jimmy Jazz”, “Koka
Kola”, “Clampdown”, la stessa title-track.
Come per il primo tour americano, negli auspici dei Clash imperava il
desiderio di riportare il vero rock’n’roll nelle città
del paese che l’aveva creato : “Voglio raggiungere i ragazzi
americani nelle loro stanze con i loro dischi dei Kansas e dei Kiss.
Penso che abbiano bisogno di una dose di noi” (Strummer , NME,1979).
Fu il tour del salto di qualità, con la band in grande spolvero,
convinta dei propri mezzi, che vide il pubblico americano sempre più
numeroso ed entusiasta al seguito dei concerti, dimostrando grande interesse
verso tutta la produzione musicale della band (compresa la cover, presentata
per l’occasione, di “Armagideon Time”, un reggae di
Willie Williams), ed anche verso i contenuti politici dei testi. Il
successo non intaccò, e questa fu una costante dei Clash, la
spiccata identità della band ed il rispetto, il modo di relazionarsi
con la propria audience. Un esempio per tutti tratto dal libro “The
Complete Clash” di Keith Topping : prima del concerto a Worcester
del 28 settembre si registrava una forte presenza di polizia fuori dalla
Clark University, il luogo dove si sarebbe tenuto il gig. Ai punk locali
non veniva concesso l’accesso al concerto a causa della politica
degli organizzatori che avevano destinato i biglietti ai soli studenti.
Joe Strummer, informato della situazione, si oppose alla decisione preannunciando
: “se loro non entrano, noi non suoniamo”. Vinse il braccio
di ferro ed i punk riuscirono ad assistere allo show. Durante il gig
Strummer dedicò a loro “Clash City Rockers”. Le radici
erano profondissime.
Durante il concerto al Palladium di New York del 21 settembre, Pennie
Smith scattò la fotografia indicata come la migliore della storia
del rock. Quella sera l’amplificazione non rese giustizia al sound
dei Clash, ed il pubblico si dimostrò attento ma non appassionato
come d’abitudine. Paul Simonon soffrì parecchio questa
situazione (“fu un momento di frustrazione”, dichiarò)
e scaricò la tensione scagliando il basso sul palco, offrendo
la possibilità alla Smith di catturare quel momento di rabbia.
La fotografia in bianco e nero insieme alle scritte in verde e rosa
di Ray Lowry, costituirono l’asse della copertina di “London
Calling”, che si rifaceva senza mezzi termini alla cover del primo
album di Elvis Presley. “The Last Testament”, questo era
stato il primo titolo pensato per il disco che verrà conosciuto
nel mondo come “London Calling”, come ha dichiarato Kosmo
Vinyl nel dvd del 25th. L’ultimo testamento del rock’n’roll,
che partiva idealmente da Elvis per arrivare al basso distrutto on stage
da Simonon. Un appassionato tentativo di riportare alla ribalta la natura
anticonformista e ribelle di un sound per troppo tempo relegato nell’album
dei ricordi. I Clash incarnavano senza dubbio quello spirito, e per
questo entrarono, beati ultimi, nel mito. Rientrarono a Londra e nel
novembre del ’79 e registrarono un nuovo pezzo di Mick Jones,
“Train in Vain”, che venne inserito in “London Calling”
dopo che la copertina del disco era già stata stampata e quindi
non compare sulla title track del vinile.
C’era però un ultimo obbiettivo che doveva essere raggiunto
: il formato del disco. Joe Strummer chiese alla CBS di pubblicare un
album doppio al prezzo di uno singolo. La Cbs rispose picche. Iniziò
così una tenace manovra di aggiramento (alla casa discografica
venne proposto in una prima fase di allegare all’album un “free-single”,
poi un 12 pollici che potesse contenere 8 pezzi, infine un 12 pollici
di 9 pezzi) che portò finalmente all’accordo voluto da
Strummer : doppio album al prezzo di uno. “Fu la nostra prima
vittoria sulla CBS”, dichiarò Joe al Sounds nel 1980.
“London Calling” uscì in Inghilterra il 14 dicembre
del 1979 ed entrò nella storia, non tanto per le vendite realizzate,
ma perché segnò un epoca e creò un nuovo stile
musicale, che partiva dalla rilettura del passato, aggiungeva il sound
incrociato nei quartieri di Londra a forte presenza caraibica, e veniva
suonato ed interpretato con attitudine punk. Una recensione dell’epoca
sintetizza bene i termini della questione. E’ quella che venne
scritta da Tom Carson per Rolling Stone, eccone uno stralcio : “Il
disco si dispone attraverso tutto il passato del r’n’r e
scava profondamente nella leggenda, nella storia, nella politica e nel
mito per le sue immagini ed i temi trattati. Ogni cosa è stata
portata dentro una singola, vasta, emozionante storia. Una storia che
sembra, come ci dicono i Clash, non appartenere solo a loro ma anche
a noi”.
Da questo momento in poi la creatività dei Clash non conoscerà
limiti, se non quelli temporali. In fondo tutta la storia si giocò
in pochi anni, sette per la precisione, volutamente senza considerare
il periodo successivo alla fuoriuscita di Mick Jones. Con il successivo
“Sandinista!” pubblicato nel dicembre 1980, la band raggiungerà
per l’appunto il suo massimo sforzo di anarchia creativa, offrendo
un triplo album tanto spregiudicato nell’affrontare generi così
differenti fra loro, quanto affascinante, seminale ed ancora oggi attuale.
Un disco terzomondista e guerrigliero, figlio di uno stato di grazia
che sembrava inesauribile.
Un decennio dopo l’uscita di “London Calling”, un
eccitato giornalista del Rolling Stone chiamò Strummer per comunicargli
che lo storico doppio era stato votato quale miglior album degli anni
’80. E Strummer sarcastico : “Ah, pensavo fosse uscito nel
‘79”.
Unico, unici, irripetibili.
Mauro
Zaccuri