INTERVISTA A PAUL SIMONON
Intervista di Enrico Sisti tratta da Musica del 27 Marzo 2003




«Eccoci qua. E secondo lei un inglese di sinistra dovrebbe ancora credere a Blair?». 48 anni, bassista storico dei Clash, ora pittore, Paul Simonon ha più di un motivo per piangere. La fine di una «certa sinistra musicale, che non è paragonabile agli istinti ribelli di oggi, troppo pilotati dal mercato». Ma anche la fine dell’illusione pan-laburista, squagliatasi con l’Iraq. E poi quel Joe Strummer «che se l’è sbrigata così». Davvero: «Non pensavo davvero che un uomo potesse mancarmi così tanto». E a poco vale che i suoi Clash siano entrati nella Hall Of Fame e che la “sua” “London Calling” sia ancora un capolavoro di rabbia.

Ma ci sono anche altre chiusure d’epoca inquietanti e Paul Simonon non ha alcuna voglia di sorvolare. Ha una voce da basso. Una volta, il basso, lo suonava nei Clash e bastavano quattro corde per respirare meglio. «Ci sono situazioni che sembrano interminabili e invece svaniscono che ancora sei lì a domandarti come sia stato possibile».

Per esempio? «Il periodo dell’apprendimento attraverso il rock.Quando ci stai dentro pare infinito. Ed è un momento pazzesco. Le facoltà terapeutiche della musica non le posso descrivere. Non so nemmeno io come avvenga la rigenerazione. Sono elementi invisibili che assimili, giorno dopo giorno, e quando sei sul palco basta un riff o un coro per sentir salire l’adrenalina. Ma stia attento, in questo caso l’adrenalina non è solo causa o effetto di una carica d’energia o di una compulsione fisica: è cultura. Per questo la musica, certa musica, fa parte della storia. Perché trasforma l’adrenalina in ideologia. Le canzoni dei Clash non erano soltanto ritmo e melodia. Erano anche sostanza con cui vivere fuori, con cui spiegarsi le ingiustizie, con cui combattere per evitarle. Non tanto per vincere, quanto per far perdere chi se lo meritava. Sono nato a Brixton e per anni non ho desiderato altro che farla pagare a quei figli di puttana che se la prendevano con chi non poteva reagire. L’Inghilterra è piena di fascisti mascherati».

Poi però che succede? «Succede che uno si rende conto della fragilità delle colonne sui cui aveva costruito il suo mondo. Cemento armato? Macché. Pasta frolla. Ogni tanto, me lo permetta, anche merda. Il rock siamo noi, eravamo noi, ma noi siamo sogni, non mi faccia tirar fuori Shakespeare. Inutile che approfondiamo: sono i classici sogni che un bel giorno svaniscono e tu sei comunque impreparato, anche se te lo sentivi».

Perché dice “eravamo”? Sembrerebbe che abbia preso le distanze dal R&R. «Tanto vale che lo si sappia. E’proprio così. Il R&R non è più niente per me. Nel senso che non entra più nella mia vita, a meno di eventi come questi recenti, come l’ingresso dei Clash della Hall Of Fame o l’uscita dell’antologia Essential Clash,che abbiamo curato io, Mick e Joe. Eventi isolati. Non suono più».

Mi dica della morte del suo amico Joe Strummer. «Che vuole, non credevo che la perdita di una persona potesse dare queste sensazioni e farti sprofondare e poi rialzarti e poi ancora giù. Joe era un combattente. Aveva nel sangue quella complessa miscela che ne faceva un partigiano istintivo».

Il rock’n’roll dei Clash, anche a giudicare da certi titoli, tipo “I’m so bored with the USA” sembra particolarmente attuale. Corrisponde ad un comune sentire progressista, ad un Europa, diciamo così, anticapitalista. «Credo che al di là della forza dinamica di certe posizioni ideologiche, ciò dipenda dalla natura della “canzone” come forma di comunicazione assoluta. Prendiamo le 40 che abbiamo raccolto in Essential Clash: verrebbe da pensare che siano cibo per la nuova generazione, che magari ancora non ha mai sentito parlare dei Clash, e non per quelli che hanno la mia età, per i quali erano tuttavia state pensate e scritte. E forse è proprio così».

Ma fuori, tra i ragazzi, il rock’n’roll è ancora vivo, è ancora quello di voi “sandinisti”? «Negli ultimi anni sono aumentate le vendite di chitarre elettriche. Facciamo finta che sia un dato positivo per valutare lo stato di salute del rock’n’roll».

Mi faccia un’istantanea della sua adolescenza artistica, dei primissimi Clash. «Si lavorava tre giorni alla settimana, scioperavano tutti, casini ovunque, il malcontento sociale si poteva toccare con le mani, in tutta Londra ci potevano essere al massimo due ristoranti italiani, la tv finiva alle 11. Nessuno aveva i capelli corti e così quelli che ce l’avevano davano fastidio. I nostri primi concerti erano delle lotte fisiche col pubblico, ci tiravano le bottiglie. Entravamo nei pub e il padrone ci buttava fuori per un motivo qualunque. Ma spesso proprio perché avevamo i capelli corti e i pantaloni attillati».

Un quadro edificante. «Ma l’entusiasmo della nostra musica nasceva proprio da questo».

Perché i Clash si divisero? «Eravamo una macchina con i freni rotti».

Ce ne sarebbe bisogno, adesso, della vostra grinta, di canzoni come “The Call Up”: scusi, ne ho presa una che non sta nell’antologia. «Se lo scrive, lo confermo, ma non mi chieda di rimettere in piedi i Clash. E poi senza Joe... strano, a quella canzone non ho pensato per l’antologia».

Qualche gruppo giovane che le piace? «I Libertines, i Blur».

Lei adesso dipinge. Le è mai capitato di avere la sensazione di «dipingere canzoni”? «Non ci sono differenze. Dipingo emozioni.Le canzoni sono ritratti».

Cosa teme di più in questi giorni? «Che nessuno, al di là delle tragedie, risponda alla mia domanda: ma davvero i governi pensano che i pacifisti siano estremisti solo perché scendono i piazza e manifestano?».