DA ROCKERILLA GIUGNO 1982

THE CLASH: COMBAT ROCKERS

Premessa n° 1: E' mia convinzione che parlare dei Clash in modo non passionale, per uno che li ama da cinque anni (ehi, eravamo esattamente in pieno"God save the queen" !), sia difficile ma non impossibile.

Premessa n° 2: nel mondo della musica non c'è più niente di cui stupirsi, tantomeno di qualcosa fatto dai Clash. Era diffusa l'idea che, con "Rat Patrol" (questo doveva essere, fino all'ultimo, il titolo del nuovo LP), Strummer & Co. sarebbero tornati a forme espressive più vicine al rock, con un sospiro di sollievo da parte di molti di coloro che si erano trovati spiazzati di fronte alla sortita "Sandinista" (cioè tutti).A rafforzare quell'idea, poi, c'erano le testimonianze di chi aveva già sentito pezzi del nuovo repertorio ai concerti parigini e inglesi dell'autunno scorso. Con il disco finalmente tra le mani, invece, cosa sembra si sia verificato? che il rock è entrato nel titolo ed è uscito dai solchi! Una constatazione, questa, che sarebbe valida se si avesse a che fare con uno dei tanti gruppi che, da venti anni a questa parte, nascono e muoiono interpretando, con più o meno originalità la musica rock, rimanendo sempre, però, nell'ambito della interpretazione. I Clash, insieme a pochi altri, non rientrano in questa categoria e "Combat rock" è un disco di R.O.C.K. tanto quanto è un disco dei C.L.A.S.H. e, quindi, con il reggae DEI Clash, il funk DEI Clash, il punk DEI Clash.



Probabilmente queste 12 canzoni non faranno aumentare il numero dei loro fans, anzi, ma qui ci sono tutti (o quasi, dato che i pezzi pronti erano 17) i pensieri e la musica dei Clash 1982 e chi è in grado di apprezzarli lo farà con convinzione e senza inutili nostalgie.Prima di abbassare la puntina c'è da dire qualcosa sulle peripezie produttive che ha attraversato il materiale sonoro in questione prima di giungere, ben confezionato (c'è un poster allegato con i quattro pards che si ritemprano all'ombra di un ameno pergolato), nelle vetrine dei negozi. In fase di registrazione, a New York, precisamente negli Electric Ladyland di Hendrixiana memoria, il gruppo ha lavorato senza l'aiuto né l'assistenza diretta di un produttore cosicché la produzione è accreditata interamente a loro, che hanno cercato di mettere a frutto gli insegnamenti appresi dal caro Guy Stevens e da Mickey Dread e Bill Price. L'operazione non è riuscita perfettamente per vari motivi, primo dei quali la congenita incapacità di creare ed agire in condizioni NON incasinate. Per dirne una Paul Simonon l'impeccabile e Topper Headon, uscito definitivamente dalla tossicodipendenza da eroina giusto prime di entrare in studio e ora dieci volte più in forma di quando si faceva (parole sue), si sono trovati a dover incidere le loro parti spesso in tempi separati rispetto agli altri e questo, oltre ad averli costretti ad operare quasi esclusivamente sulla ritmica, non ha certo favorito la coesione finale dei suoni. Inoltre, avendo l'impegno di un tour nel pacifico, tutta la compagnia non ha pensato meglio che portarsi dietro i nastri per terminare il mixaggio. Non essendoci riusciti nella settimana di permanenza a Sidney, pur lavorando tutte le notti dopo i concerti, veniva fissato un appuntamento a Londra con Glyn Johns, mago delle miscelazioni finali (esperienze con Eagles e Rolling).Senz 'altro questo Johns avrà fatto tutto il possibile, ma i risultati lasciano a desiderare un pò troppo.



I suoni sono sì puliti ma manca del tutto quella profondità del fronte sonoro così apprezzata in "Sandinista", mentre la voce solista rimane sempre troppo separata dal resto. Potrebbe anche essere stata una scelta, vista l'estrema importanza delle parole, comunque i registri degli acuti sembrano regolati troppo in alto rispetto ai medi e ai bassi che, sul versante strumentale, rimbombano spesso e volentieri, con buona pace dell'incolpevole Paul. E' così che "Know your rights", secchissima e marziale, è subito una grossa delusione, soprattutto per chi ha avuto l'occasione di sentire le micidiali raffiche che Mick - Killer - Jones sparava sulla raucedine di Joe nell'esecuzione live del brano che, da nuovo cavallo di battaglia si è tramutato nella cosa più discutibile (musicalmente) dell'album. Dopo "Car jamming", un audace zig-zag, a ritmo di samba, tra gli ingorghi del traffico con, al volante, la deliziosa Ellen Foley cinguettante nel coro, arrivano tre minuti di puro divertimento a base di punkabilly efferato con un arrapatissimo Mick, voce solista e i due (Joe Strummer e l'amico Ely) ad intonare un gospel hispanico; titolo della fiesta "Should I stay or should I go". C'è quindi un pò di disco-Clash-music, poco urbana e molto esotica, "Rock the casbah", da ballare sulla sabbia in compagnia di un muezzin che funambolico si esibisce sopra la griglia del radiatore di una Cadillac. Con "Red angel dragnet" (voce, testo e musica di Simonon), è la volta di una Marlene Dietrich rasta che, in veste di d.j. della radio preferita dai taxisti della grande Mela, racconta dell'uccisione, da parte di un poliziotto, di uno di quei ragazzi che pattugliano, volontariamente, la subway per permettere alla gente di viaggiare senza il pericolo di essere accoltellati alla prima fermata. Joe Strummer ritorna, con Topper "limpido come il ghiaccio dell'inverno" per chiudere la facciata e portare i Clash in alto, molto in alto, al culmine della loro espressività; "Straight to hell" è il momento più magico di "Combat rock" ed è il momento di tutti i ragazzi a cui viene troppo spesso detto: "non c'è nessun bisogno di voi, andatevene dritti all'inferno". Lato due e olè col funk e con futura 2000, l'artista americano che lo scorso anno dipingeva i fondali con i suoi spray mentre il gruppo suonava. Non è il superlativo rap "Graffiti Story" (reperibile finora solo sull'eccezionale bootleg "Up and at em! ", caldamente consigliato anche perchè contenente la vera "Know your Rights"), ma si tratta di un più tomtomclubesco "Overpowered by funk". "Atom tan" e uno di quei pezzi che fanno dire ad una ragazza londinese: attraverso la musica dei Clash molta gente si è resa conto del fatto che, nel corso della nostra esistenza, c'è qualcos'altro oltre i vestiti e ai cocktails, ed è stata incoraggiata a pensare di avere la possibilità di fare qualcosa per cambiare le cose" (da una lettera all'NME).

Una liquidità perfidamente orientale (c'è Gary Barnacle ai fiati), e siamo in Indocina, più esattamente in Cambogia, da dove il fotografo di guerra Sean Flynn (figlio di Errol) non è più tornato; i colori sono iridescenti e la calma è quella irreale della giungla subtropicale. Los Angeles, Londra, Berlino, Milano, New York: l'invocazione è la stessa; ovunque non ci sia altro che ingiustizia ed eroina: avere una vita da vivere. Allen Ginsberg da il suo appassionato contributo a questo grande "Ghetto defendant". "Inoculated city" è musica amabilmente leggera per un testo duramente antimilitarista che assume un tono ancor più ammonitore sotto il peso dei morti nelle Falkland: "Nessuno sa per cosa stanno combattendo / siamo stufi di questa storia / non dovete lasciare correre". Con "Death is a star" è il Raymond Chandler più romantico che si incarica di dare un inquietante commiato mentre, fra i titoli di coda che già scorrono, s'intravede Joe assorto sulle pagine di un libro. Di lì a poco se ne andrà via senza essere più visto da nessuno. La prospettiva di un altro infinito tour mondiale (due mesi solo negli USA), senza stimoli artistici ma soltanto per la promozione di un fottuto, per quanto bellissimo pezzo di vinile, lo ha convinto a fermarsi, per considerare, ancora una volta, se... ne vale veramente la pena. Il futuro di un vecchio punk non è stato scritto, ancora.

RUPERT